Torna, anche quest’autunno, con “Bird Song”, dal 27 settembre al 26 novembre, l’abituale appuntamento al Maxxi di Roma con l’artista dell’anno premiato dalla Deutsche Bank e questa volta si tratta di una rassegna che può considerarsi una composizione che si districa tra bianco e nero, tra lavagna e gessetto, tra libertà fisica e di pensiero, alternando installazione video, disegni e installazioni murarie.
L’edizione 2017, dopo quella del 2016 dedicata a Basim Magdy, consacra il sudafricano Kemang Wa Lehulere, classe 1984, eclettico interprete del grido d’arte del continente nero post-Apartheid che vive tra Johannesburg e Cape Town e ha preso parte a numerose mostre collettive internazionali, tra cui l’ottava Biennale di Berlino (2014), la seconda Triennale del New Museum a New York (2012), e l’undicesima Biennale di Lione (2011), ricevendo, nel 2015, il riconoscimento “Standard Bank Young Artist” per le arti visive.
Il focus centrale della mostra di Kemang è imperniato sul dialogo che l’artista stabilisce con la figura di due donne: Gladys Thomas (1935-1972), poetessa sudafricana, scrittrice di quello che fu il primo libro proibito nel periodo dell’Apartheid e Gladys Mgudlandlu (1917-1979), donna e pittrice autodidatta che fu tra i primi neri ad esporre la propria arte in una galleria sudafricana negli anni ’60, quindi in pieno regime di Apartheid, durato fino al 1994.
Mgudlandlu, maestra di scuola elementare, viveva, negli anni ’50, proprio nel quartiere della famiglia di Kemang, finché i neri non furono costretti dalle leggi razziali a trasferirsi in un’altra area della città.
La zia di Wa Lehulere serbava però il ricordo di quella donna che dipingeva soprattutto paesaggi e uccelli che le valsero il titolo di Bird Lady e che popolava i muri della sua casa di murales non avendo libero accesso, in tempo dittatoriale, ai mezzi artistici tradizionali come tele, etc.
Del resto, per la popolazione nera mancava anche un’educazione artistica scolastica, perché i potenti, dai loro scranni, ritenevano che non avrebbe avuto senso, per coloro che erano destinati a mestieri concreti e a servire i bianchi, impadronirsi di una disciplina che non avrebbero mai utilizzato.
Parlare d’arte era proibito in quegli anni, ma piano piano, il filo del ricordo intessuto dalla curiosità del nipote e dalla memoria della zia, srotola le pagine della memoria.
Con la speranza di ritrovare quegli antichi murales, visti dalla zia di Wa Lehulere nella casa natale dell’artista, Kemang chiama degli archeologi a fare un sopralluogo nella casa originaria della Mgudlandlu e, sotto una parete d’intonaco, affiorano i suoi disegni a gesso. Rompere quel muro ha un valore artistico ma anche metaforico di rottura con i vecchi tempi e di rinnovata uscita dalla segregazione che l’artista vuole far rivivere ai visitatori della mostra.
I ricordi della zia delle altre opere viste a casa della Mgudlandlu e il recupero ad un’asta londinese di parte della produzione della maestra Gladys, fanno il resto.
Ecco quindi che, con raffinatezza e pathos, la mostra punta il dito su questo dialogo tra anime affini (uccelli dalle stesse piume che sanno volare insieme), unendo in una sola voce spiriti gemelli abili nel creare immagini simboliche e trascendenti con cui esplorare il dolore di quella terra natale sottomessa a un regime che, per decenni, ha separato vite e disgregato ambizioni e passioni. Da questo connubio nascono così nuovi modelli narrativi e nuove forme di azione politica mediante l’esplorazione di ogni genere e strumento artistico utile a sviluppare nuove prospettive d’arte.
La mostra porta in sé le tracce del razzismo e dell’ingiustizia sociale che hanno segnato e continuano a segnare la storia del continente nero e mescola allusioni all’era dell’Apartheid con ricordi personali, gesto artistico e un talento che non cessa mai di indagare ogni forma del far arte, attraverso performance, video, installazioni e disegni insoliti dove il tratto la fa da padrone.
L’arte per Kemang Wa Lehulere è esercizio di memoria, quella della zia che rievoca la Mgudlandlu, quella della storia del suo paese ed infine quella evocata dal gessetto materiale che, se è vero che può essere cancellato in un baleno, può però essere anche fissato sulla lavagna e divenire evocazione stessa della persistenza di ciò che sembrerebbe più evanescente: il ricordo.
Il bianco e nero, come ai tempi dell’Apartheid, sono al centro della mostra, ma stavolta sono uniti e non separati, in un riscatto escatologico che solo l’arte può così sapientemente fornire. L’inchiostro nero su carta, il gesso bianco sulla lavagna… il colore nelle opere in rassegna è ridotto quasi a zero.
Nelle installazioni, invece, prevale il legno. “My Apologies to Time (2017)” è un caratteristico assemblamento di banchi scolastici convertiti in casette per uccelli, collegati a tubi di acciaio intrecciati. L’unico uccello visibile è impagliato, rigido, imbalsamato, per il resto le case sono in diversi stati: aperte, chiuse, oppure appena abbozzate. Ineludibile il messaggio: la scuola può ingabbiare; l’istruzione, se impartita dal regime per educare e formare le classi a pensare in una determinata maniera, può rendere schiavi anziché liberi.
Il mobilio scolastico torna anche nell’altra installazione, “Broken Wing”, una sorta di gigante ala volante che richiama nuovamente il tema degli uccelli, realizzata con pezzi di vecchi banchi di scuola, stampelle mediche che rievocano sofferenza e che l’artista riconduce al dolore della perdita di qualcosa di autentico, libri proibiti morsi dal calco dei denti dell’artista. In quest’ala di sofferenza, rivela Kemang Wa Lehulere, c’è tutta l’espressione della reazione personale alle passate condizioni coloniali e all’esproprio di fatto di una terra, avvenuto in nome di Dio.
Le opere di Wa Lehulere accanto a quelle della zia e alle opere di Gladys Mgudlandlu, condurranno lo spettatore in un posto lontano e in un’epoca nemmeno troppo remota in cui arte, dialogo e unione erano vietate dall’ordine costituito e precluse nella vita di milioni di persone.