PAROLA DI GICIEMME. CARO MANCUSO, SCEGLI: VITA AUTENTICA O VITA IPOCRITA?

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(17.1.2010) Ci capitò di imbatterci in Vito Mancuso, che non conoscevamo, leggendo un articolo su Repubblica in cui si avventurava in un'improbabile difesa di Benedetto XVI (a proposito, se fossimo ebrei oggi saremmo andati a sbarrare le porte della sinagoga di Roma, altro che riceverlo con tutti gli onori. La riabilitazione del vescovo negazionista e il riconoscimento delle “virtù eroiche” di Pio XII sono solo gli ultimi degli schiaffi che  costui ha sferrato sulle guance del tormentato popolo di Israele, per non parlare di quanto ha fatto quando era Presidente dell'ex Inquisizione, la Congregazione per la dottrina della fede). Leggendo i titoli di Repubblica, diceva più o meno il Mancuso in quell'articolo, possiamo dedurre che gli uomini di oggi sono malvagi o infelici. E tutto per colpa di che? Ma sicuramente della loro mancanza di fede, del loro laicismo. Leggemmo poi una lettera a Repubblica in cui il Mancuso veniva definito “un fine teologo” e ci dicemmo: se questo è uno fine, chissà gli altri come saranno. Adesso il nostro Gian Carlo Marchesini si è imbattuto in un libro di Mancuso, incautamente l'ha acquistato e ancora più incautamente l'ha anche letto. Rimanendo seriamente deluso, come ci spiega in questo articolo. Va bene, ma perché buttare i soldi così?
di Gian Carlo Marchesini

La realtà della condizione umana è problematica e complessa, sostiene nel suo "La vita autentica" (Cortina editore 2009) il teologo Vito Mancuso, e su questo non è proprio il caso di sollevare dubbio. Come comportarsi, come interloquire, come connettersi e agire, quale bussola utilizzare per non perdersi e naufragare? L’autore, per meglio farsi intendere, si fa accompagnare nel suo  percorso dalla parola dei  grandi sapienti: dai classicissimi Platone,  Aristotele ed Eraclito , ad altri non meno classici quali Cartesio (Discorso sul metodo)  e Immanuel Kant. A precisare meglio cosa intende per  “autentico” Mancuso propone la definizione etimologicamente corretta di “fedele a se stesso”, e la accompagna con una citazione di Shakespeare, che nell’Amleto dice: “Sii sincero verso te stesso, e ne conseguirà che non potrai essere falso verso nessuno.”
La lettura del libro scorre interessante e liscia fino a quando, verso la metà, un capitolo mi ha fatto sobbalzare. Citando Dietrich Bonhoeffer, pastore protestante tedesco impiccato nel 1945  dai nazisti in un campo di concentramento, Mancuso affronta di petto il tema del “cosa significa dire la verità”, titolo di un saggio di carattere etico dello stesso Bonhoeffer, così riformulandolo:  “una verità può essere più vera quando nega scandalosamente l’evidenza dei fatti?”

Per meglio chiarire il suo pensiero il Nostro ricorre allo stesso esempio portato dal pastore protestante tedesco nel suo saggio. Un bambino viene pubblicamente affrontato in classe dalla maestra che lo interroga: è vero che tuo padre beve così tanto da essere spesso ubriaco? In effetti, quello è un dato di verità reale ed effettivo: ma, vergognandosi, e allo scopo di proteggersi, il bambino decide di mentire e risolutamente nega.  Ma ecco che dal banco si alza uno dei suoi compagni, che lo smentisce ad alta voce asserendo che, a sua conoscenza diretta, il padre del suo amico effettivamente beve assai. Subito si alza un secondo compagno che, a soccorso dell’amico in difficoltà, si affretta a smentire la testimonianza del primo: non è vero, il padre del mio amico non beve, e questo io ho avuto modo di costatarlo direttamente. L’uomo ubriaco esiste, ma è un altro.
Vito Mancuso commenta e giudica la scena raccontata in questo modo: nella vita si ha spesso a che fare con una verità effettuale e una diversa e superiore, che per intenderci definiamo caritatevole. Che il padre del bambino sia alcolista non vi è dubbio alcuno – e quella è la verità effettuale. Ma il bambino ha pieno diritto di tutelare l’intimità preziosa della sua famiglia – così come l’amico ha il dovere di proteggere la fragilità sofferente del proprio compagno. Così negando, tutti e due attingono alla sfera di una verità superiore che è – sostiene Mancuso – quella da  privilegiare. Insomma, la verità va detta tenendo conto della persona con cui si parla. Il criterio decisivo? L’incremento della qualità delle relazioni, perché:  “una bugia, un’esplicita negazione della verità, e come tale un’affermazione falsa, può contenere più verità di una affermazione vera”; e, ancora: “è più importante il rapporto umano della descrizione oggettiva di come stanno effettivamente le cose”.

A quel punto della lettura a me è entrata sotto pelle una certa inquietudine, anche perché mi è venuta una associazione che credo pertinente. Quest’estate, in vacanza a Maratea, è esploso un dibattito pubblico rovente sulle vicende, rivelate da un pentito della ndrangheta e da un giudice che indaga, dell’affondamento di decine di imbarcazioni cariche di scorie industriali tossiche e perfino radioattive nel mare e lungo le coste delle regioni del Sud. E, purtroppo, quella ha tutti i requisiti per proporsi come verità fondata ed effettuale. Ma la conferma con riscontri inoppugnabili della vicenda determinerebbe il crollo dell’economia turistica di quelle regioni – cioè dell’economia tout court. Molto meglio quindi – secondo il punto di vista di molti, sicuramente dei complici diretti e indiretti di quei misfatti, ma anche di  parte degli amministratori pubblici locali e politici nazionali – sdrammatizzare, relativizzare, sminuire, sopire, negare. Le ricerche e le indagini, se proprio indispensabili, possono essere fatte, ma senza eccessi di zelo, magari spostandole là dove i fondali garantiscono il ritrovamento non delle navi di rifiuti verosimilmente affondate, ma di altri scafi del tutto innocui, e perfino di antiche anfore romane ed altri reperti archeologici. E così il giorno dopo, esibendo a trofeo i ritrovamenti innocui, si può annunciare trionfanti che il pericolo non esiste, le dicerie si sono dimostrate infondate, pescatori e operatori turistici e commerciali possono tranquillamente proseguire con le loro attività, gli abitanti possono stare tranquilli e i turisti benvenuti. E questa sarebbe in qualche modo, mutuando lo schema di pensiero  di Vito Mancuso, la verità superiore, quella caritatevole perché attenta a non turbare i rapporti interpersonali e  sociali.
Non so voi, ma io sono riluttante a pensarla così. Per il bambino figlio del padre alcolizzato potrebbe anche essere ipotizzata una terza possibilità: l’essere accolto in classe dalla maestra e dai compagni che accettano e riconoscono quel doloroso dato di realtà,  e aiutano anche il bambino ad accettarla, e su quella comune e condivisa presa d’atto procedono interrogandosi sul che cosa è utile fare, e come agire per aiutare quel bambino, e quel genitore, a risolvere il problema. Negando l’esistenza del problema, sia pure con l’intenzione di proteggere e non far soffrire il bambino, non ci si impedisce in partenza e in radice la possibilità di agire per risolverlo?
La stessa cosa vale per le navi affondate piene di rifiuti tossici nocivi. Negare l’esistenza dei fatti, scambiare scorie radioattive per anfore, significa tirare un collettivo e universale respiro di sollievo, evitando danni immediati alle economie locali. Ma significa anche negare e rimuovere un problema che se confermato sarebbe gravissimo (e le responsabilità politiche e giudiziarie collegate altrettanto gravi). Mentre affrontarlo subito e seriamente comporterebbe varare un programma di interventi finalizzati a recuperare quanto irresponsabilmente affondato, bonificare e risanare, scongiurando i danni letali crescenti per le generazioni venture.
A Vito Mancuso, che ci invita a essere dolcemente caritatevoli, e insieme omissivi, a ignorare il dato di realtà per proteggere e non far troppo soffrire, io ricorderei che questo nostro disgraziato Paese è fin troppo fondato sulla negazione e sulla rimozione di fatti criminosi e annesse responsabilità (pensiamo alle tante, troppe stragi prive di colpevoli noti e perseguiti), e che omettere una presa d’atto e di assunzione di responsabilità per un dato di realtà inoppugnabile è come abitare una casa i cui sotterranei sono colmi di cadaveri che emanano un fetore terribile. Altro che casa fondata sulla roccia! come reclama giustamente l’autore del saggio citando i Vangeli. Basterebbe qui al proposito citare quella dello studente di L’Aquila, che ora si scopre crollata, e i ragazzi morti schiacciati sono stati sette,  non tanto per il terremoto in sé, quanto perché realizzata da  costruttori criminali priva di un pilastro portante.  Imparare a riconoscere e seppellire i propri morti, specie quelli uccisi da responsabilità delittuosa violenta, è una pratica che ancora gravemente ci difetta, e questo comporta che anche la misura necessaria della nostra dignità manca. E se continuiamo a preferire il soccorso di giaculatorie, esorcismi, genuflessioni, deleghe a chi in cambio ci protegge e garantisce il perdono nell’ignoranza – e insieme ci costringe all’ignoranza del perdono vero, quello consapevole e responsabile –  continueremo a  mantenerci in uno stato di immaturità pavida e subalterna.

Io condivido la definizione
che Vito Mancuso dà della autenticità, e cioè la condizione di chi è fedele a se stesso. Ma poi Mancuso prosegue aggiungendo che noi siamo anche molto capaci di raccontarci favole, di illuderci e ingannarci. Ma allora, come uscire dal dilemma: fiducia in sé stessi, o dubbio e presa di distanza? L’uomo probo, consapevole e responsabile, incarna la condizione umana di una vita autentica. Ma chi certifica e conferma che non ci sono imbrogli e inganni? Colui non si racconterà una favola bella? La condizione umana è sicuramente difficile, problematica, complessa. Ma per chi non è credente, non orientato quindi ad affidarsi a una soccorrevole e verticale corsia preferenziale, l’unica opzione possibile non è quella dell’assunzione di responsabilità e di rischio  in proprio – o insieme agli altri, ma dentro una condivisa dimensione orizzontale?
Per il credente, e Vito Mancuso lo è, soccorre la fede in un Dio onnisciente e onnipotente, con annesso corredo di figure sacerdotali mediatrici e soccorritrici. Se non esistono ricette facili e soluzioni semplici, sicuramente i medici del corpo e dell’anima possono con le loro competenze essere utili e perfino in alcuni casi necessari. Ma è altrettanto vero che è la condizione di un essere umano cronicamente debole a costituire di questi medici la migliore garanzia di potere, benessere e fortuna. Così come la paura dell’ignoto e del buio rassicura i genitori di bambini piccoli sull’indispensabilità del proprio ruolo protettivo. La fragilità e debolezza di molti nutrono la perpetuazione e il potere delle corporazioni degli onnipotenti  pochi. Meglio allora, io ritengo, fondare il proprio agire sull’esercizio di una prudente e continuamente sottoposta a verifica  fiducia in sé,  e su una concreta solidarietà e condivisione collettiva. Cerchiamo di fare a meno di verità caritatevoli di secondo e terzo grado, e del supporto di tutor e gerarchie provvidenziali, sapendo però che la nostra forza/debolezza è effettivamente conosciuta e fraternamente condivisa.

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