L’EUROPA E IL MONDO: I HAVE A DREAM

Se si esclude la visita fatta ginocchioni da
Berlusconi al grande alleato americano, esaltato con un entusiasmo che
è parso eccessivo perfino agli osservatori più distaccati, in questa
troppo lunga campagna elettorale i temi della politica internazionale
sono rimasti quasi sempre ai margini. Siamo perciò lieti di pubblicare su Contrappunti questo scritto di Marco Vitale, che
riprendendo in parte riflessioni già espresse negli anni scorsi, ma ancora
estremamente attuali, ci fa capire perché non possiamo accettare una
globalizzazione che protegga l’esportazione delle tecnologie con le
cannoniere delle portaerei, perchè non dobbiamo ammettere che l’America
“violenti, distorca e svuoti di contenuto tutte le istituzioni mondiali
pensate al servizio dello sviluppo civile ed economico del
mondo”. "L’Europa non può e non deve impegnarsi in una gara al
riarmo con gli USA ma contro la miseria, contro la perversa concezione
dello sviluppo che domina gli ambienti di Washington, contro la
privatizzazione del mondo a favore delle multinazionali". “E’ qui che la
corsa ha delle possibilità di vederla in testa, ritrovando anche
un’antica America, che sembra sparita ma che sparita non è. E’ solo
dispersa”
Articolo di Marco Vitale

Se dimenticate che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno voi siete perduti (J. J. Rousseau)
In Iraq la guerra americana si è dimostrata un
autentico disastro per l’Iraq, per il mondo, per l’America. Quindi oggi
è possibile affermare a consuntivo: "Consideriamo la guerra in Iraq e
l’occupazione un grave errore", come dice il programma dell’Unione, che condivido su questo
tema totalmente. Ma mi sembra che tutto il capitolo del programma intitolato "I valori, le
scelte, la legittimità internazionale" sia da condividere ad iniziare
dall‘incipit: "Scegliamo l’Europa e il processo di integrazione
europea come ambito essenziale della politica europea". E’ questa una
essenziale linea di differenziazione con il "gauleiter" di Bush, Silvio
Berlusconi che, se almeno una volta nella vita dicesse una verità
dovrebbe dire: "Scegliamo l’America ed il fondamentalismo di Bush come
ambito essenziale della politica dell’Italia".
L’emblema del mondo che si sta instaurando può essere l’immagine dei marines che
presidiano i pozzi di petrolio dell’Iraq, mentre nessuno muove un dito
per proteggere uno dei musei più importanti del mondo, patrimonio
dell’intera umanità, da sciagurati saccheggi. L’attacco all’Iraq è
stata solo una battaglia di una lunga guerra che i governanti degli USA
hanno dichiarato al resto del mondo, con l’obiettivo di avere su di esso
una supremazia assoluta. Anche chi pensa che l’attacco all’Iraq fosse
necessario e che, dopo tutto, esso ha liberato, con un prezzo modesto,
quel popolo da un feroce despota ed il mondo da un pericoloso
piccolo Hitler del Medio Oriente, non può non riflettere sul
significato, più a lungo termine, di quello che sta succedendo intorno
a noi.

La globalizzazione pacifica, che ha preso corpo e ci ha illuso dopo
l’implosione dell’impero sovietico, è finita. Essa ha rappresentato
un’enorme speranza. Liberando le energie, soffocate dai regimi
collettivisti, di miliardi di persone, riducendo le spese militari e
distribuendo così il dividendo della pace, avviando la fusione
progressiva delle economie nazionali verso un mercato capitalista più
integrato, questo processo ha portato ad una crescita eccezionale delle
forze produttive. Il modo di produzione e di accumulazione
capitalistico, dando segni di una  creatività e vitalità stupefacenti
ha, in meno di un decennio, raddoppiato il prodotto mondiale lordo e
triplicato il volume del commercio mondiale, mentre il consumo di
energia raddoppia in media ogni quattro anni. L’economia mondiale
potrebbe, oggi, produrre beni primari per assicurare una vita decente a
dodici miliardi di persone. Ma così non è: la fame, la sete, le
epidemie e la guerra uccidono, ogni anno, più uomini donne e bambini
di quanto non abbia fatto in sei anni la seconda Guerra Mondiale.

Con il dollaro o con le guerre

La successione delle guerre deve aiutarci a riflettere ed a capire che
siamo di fronte ad una semplice fase della gigantesca operazione
attraverso la quale i signori del capitale globalizzato ed, in primo
luogo, il complesso industriale-militare americano, vogliono
assicurarsi il dominio del mondo, per esercitare su miliardi di persone
un diritto di vita e di morte. Questa operazione viene condotta in
primo luogo attraverso il WTO, il FMI, la Banca Mondiale, le
speculazioni monetarie, le strategie d’investimento, sino a quando è
possibile. Quando non è più possibile con le spettacolari armate al
finanziamento delle quali gli USA dedicano quasi 400 miliardi di
dollari all’anno, pari al 40% della spesa militare di tutti i paesi del
mondo. Così alla globalizzazione della pace e della speranza è
subentrata la globalizzazione delle cannoniere. Ed un’altra volta il
mondo sta vedendo svanire una grande speranza. Ha scritto efficacemente
Walter Hollenweger, uno stimato teologo dell’Università di Zurigo: "la
cupidigia ossessiva e senza limiti dei ricchi dei nostri paesi, alleata
con la corruzione praticata dalle élite dei paesi detti in via di
sviluppo, costituisce un grande complotto omicida… Ogni giorno,
ovunque, nel mondo, si ripete la strage degli innocenti di Betlemme”.

E’ nostro dovere di uomini liberi ribellarci a questo deplorevole stato
delle cose. Nessuno, nei posti di comando, crede più ad una
globalizzazione funzionale allo sviluppo del mondo. E’
convincente Ziegler quando scrive (v. “La privatizzazione del mondo”,
Marco Tropea ed. 2003, da cui traggo molte citazioni di questo scritto)
: “La globalizzazione disegna così sulla faccia della terra una specie
di scheletrica rete che unisce alcuni grandi agglomerati, al di fuori
della quale si assiste all’avanzata dei deserti”. Stiamo entrando
nell’epoca dell’”economia di arcipelago” un modello a “velocità
multiple” che conduce alla progressiva distruzione di tutti i tipi
tradizionali di società e di socialità e segna, senza dubbio per lungo
tempo, la fine del sogno di un mondo infine unificato, riconciliato con
se stesso, e in pace. Il mondo globalizzato consiste in realtà in una
serie di isolotti di prosperità e di ricchezza che fluttuano su un
oceano di popoli in agonia”. La globalizzazione americana non ha
globalizzato il mondo. Lo ha spaccato, lo ha frazionato. Lo slogan
“World peace through trade” è diventato irridente.


La filosofia dell’impero americano

Adesso comprendiamo che non scherzava Jesse Helmys, dal 1995 al 2001
presidente della Commissione per gli Affari Esteri del Senato
americano, quando diceva: “Noi siamo al centro del mondo ed intendiamo
restarci… Gli Stati Uniti devono dirigere il mondo portandovi la
fiaccola morale, politica e militare del diritto e della forza e
servire di esempio a tutti i popoli”.

Adesso sappiamo che questa visione accomuna tutto il gruppo dirigente
americano se essa è molto simile a quella formulata, sia pure in
termini ancora più crudi e grossolani, da Thomas Friedman, consigliere
speciale del segretario di Stato Madeleine Albricht
dell’amministrazione Clinton: “perché la globalizzazione  funzioni,
l’America non deve temere di agire come l’invincibile superpotenza che
in realtà è… La mano invisibile del mercato non funzionerà mai senza un
pugno visibile. McDonald’s non può diffondersi senza McDonnel Douglas,
il fabbricante di F15. E il pugno visibile che garantisce la sicurezza
mondiale della tecnologia della Silicon Valley si chiama esercito,
aviazione, forza navale e corpo dei marines degli Stati Uniti”.

Adesso sappiamo che l’editorialista del Time Magazine, Charles
Kreuthammer, è un fedele interprete dell’opinione pubblica dominante in
America quando scrive: “Come un colosso, l’America poggia i piedi sul
mondo. Dal tempo in cui Roma distrusse Cartagine  nessun’altra grande
potenza ha raggiunto la vetta a cui noi siamo arrivati”.

Adesso sappiamo che esprime il pensiero del mondo delle grandi
compagnie multinazionali, lo svedese Perry Barnevik, già criticato e
criticabile presidente della ABB, gigante della metallurgia e
dell’elettronica, quando dice: “definirei la globalizzazione come la
libertà, per il mio gruppo, di investire dove vuole, per il tempo che
vuole, per produrre ciò che vuole, approvvigionandosi e vendendo dove
vuole e dovendo sottostare al minimo di restrizioni possibili in
materia di diritto del lavoro e di accordi sociali”.

La scelta dell’America attuale a favore di una strategia imperiale  e
militare, anziché di una organizzazione multilaterale della sicurezza
collettiva e di un impegno genuino allo sviluppo economico-sociale e
democratico dei popoli più arretrati (come è stato a lungo nel suo DNA)
è ormai chiara. Oggi comprendiamo meglio il significato
dell’ammonimento che il presidente Eisenhower rivolse, al termine del
suo mandato, all’America ed al resto del mondo sul pericolo del
complesso industriale-militare americano . Ma questa scelta, per quanto
dolorosissima per tutti gli amici dell’America, per quanto abbia ucciso
una grande speranza sorta nel 1991, per quanto abbia fatto fare
all’umanità un grande salto indietro, è una scelta legittima per un
Paese che non se la sente di percorrere le vie nuove alle quali
l’appuntamento della storia l’aveva chiamato, e preferisce restare
ancorato alle antiche e sperimentare vie degli imperi insanguinati,
alla gestione unilaterale di una “blood money”.

L’asservimento delle istituzioni internazionali

Quello che però non possiamo accettare è che, per perseguire questo suo
obiettivo di potere imperiale, l’America violenti, distorca e svuoti di
contenuto tutte le istituzioni mondiali pensate al servizio dello
sviluppo civile ed economico del mondo. Queste non sono di proprietà
americana; sono, nel bene e nel male, frutto di uno sforzo comune. Per
quanto imperfetto, insufficiente, fragile questo sforzo sia, non
possiamo azzerare tutto. Accanto alla grande forza militare,
l’obiettivo imperiale americano è perseguito con una serie di strumenti
tra i quali i principali sono: le convenzioni internazionali, la Banca
Mondiale il FMI, il WTO e, nell’ambito di questo, l’accordo Trips. Per
quanto riguarda le convenzioni internazionali il discorso è molto
semplice. Gli Stati Uniti si rifiutano di firmare o ratificare
qualunque convenzione che, a fronte di un avanzamento della civiltà
giuridica del mondo, comporti qualche limitazione alla propria
sovranità politico militare.
E’ stato così: per la Convenzione
internazionale che vieta la produzione, la diffusione e la vendita di
mine antiuomo; per la Convenzione di Roma istitutiva di una corte
penale internazionale per la sanzione giudiziaria dei genocidi, crimini
contro l’umanità e crimini di guerra; per la Conferenza di Vienna del
1993 che tentò di inserire tra i diritti umani i diritti economici,
sociali e culturali (e, coerentemente, gli USA alla Commissione per i
diritti umani delle Nazioni Unite, votano sempre contro ogni misura che
tenti di dare concretezza ai diritti economici, sociali e culturali
quali diritto all’alimentazione, all’acqua potabile, all’istituzione,
alla salute); per la Convenzione contro i paradisi fiscali; per la
Convenzione sul divieto delle armi biologiche (ratificato da 143
paesi); per l’annullamento unilaterale del protocollo di Kyoto che
prevedeva la graduale riduzione e il controllo internazionale delle
emissioni di CO2 nell’atmosfera.
Di fronte a questa successione univoca
di fatti, chi può dubitare della correttezza dell’analisi di Claude
Monnier, un editorialista svizzero, tradizionalmente vicino
all’America: “La caduta del muro di Berlino ci aveva privati dei
nostri punti di riferimento. Dodici anni più tardi, l’11 settembre ce
li restituisce. Ma il vero obiettivo degli Stati Uniti non è quello di
ridurre il terrorismo (è impossibile, esso esisterà sempre da qualche
parte…). Con tutta evidenza l’obiettivo degli Stati Uniti è piuttosto
quello di utilizzare ormai il terrorismo come argomento moralmente e
politicamente vincente per organizzare il mondo nel modo per loro più
conveniente. Lo invocano dunque per sottrarsi in maniera unilaterale ai
trattati che non sono di loro gradimento, per imporre la giustizia
sommaria sulla terra o per allontanare fastidiosi concorrenti
commerciali”.


I Paesi poveri: da ventisette a quarantanove. Grazie anche alla Banca mondiale

Dal 1971 i paesi più poveri del mondo sono stati raggruppati nella
categoria PMA (paesi meno avanzati). Quando la categoria fu creata
erano ventisette. Oggi sono quarantanove (trentaquattro in Africa, nove
in Asia, cinque nel Pacifico, uno nei Caraibi). Da quando è stata
istituita la categoria dei “paesi meno avanzati”, solo il Botswana è
uscito dal gruppo, grazie ad una politica agricola autonoma. Questi
paesi raggruppano 640 milioni di esseri umani, il 10% della popolazione
mondiale, ma producono meno dell’1 percento del reddito mondiale (tanto
che vengono anche chiamati “popolazione non redditizie”). Se sparissero
improvvisamente inghiottiti da un buco nero, l’economia mondiale non se
ne accorgerebbe neppure, mentre, forse, i reggitori del mondo
sarebbero, in fondo, sollevati. La domanda che si pongono da tempo gli
economisti dello sviluppo è: come mai, dopo tanti decenni di sforzi per
tentare di far decollare economicamente questi paesi, i risultati
ottenuti sono prossimi allo zero o sottozero? In verità è ormai chiaro
che gli organismi internazionali ai quali è affidato il tema dello
sviluppo, si muovono con una filosofia e  con metodologie tali da
rendere impossibile ogni serio progetto di sviluppo.
La filosofia di
base è riassunta nel cosiddetto “Consenso di Washington” (formalizzato
nel 1989 da John Williamson, economista – capo e vice-presidente della
Banca Mondiale). I suoi principi astratti, generici, validi, in
determinate circostanze, in tutti i luoghi ed in tutti i tempi, non
sono adatti a realizzare uno schema di sviluppo reale di un paese
arretrato che deve basarsi sulla valorizzazione delle risorse reali e
specifiche di quel paese ma anzi sono, per molti versi, distruttivi.
L’Economist, che non è un foglio sovversivo, ha scritto:
“Antiglobalists see the Washington Consensus as a conspiracy to enrich
bankers. They are not entirely wrong”.

Eppure ancora oggi la Banca Mondiale si muove sulla base di questa
sommaria e schematica filosofia, dopo essersi in passato basata sul
finanziamento delle grandi opere inutili che hanno arricchito i satrapi
del Terzo Mondo, sconvolto le tradizionali economie di quei paesi, e
lasciato sugli stessi un debito insostenibile (pari per i paesi PMA al
124 percento del prodotto interno lordo) bilanciato all’attivo solo da
crediti virtuali verso i satrapi per i capitali rubati. Anche qui non
si tratta di una lettura critica proveniente da fonti rivoluzionarie,

ma che ha trovato nelle formulazioni più severe, in interventi di senatori americani. Del presidente più importante della Banca
Mondiale, Robert McNamara, presidente dal 1968 al 1981, dopo essere
stato ministro della difesa dei presidenti Kennedy e Johnson, è stato
detto, giustamente, che ha fatto più morti come capo della Banca
Mondiale che come responsabile dei massacri del Vietnam in veste di
ministro della difesa degli Stati Uniti.

Dopo il Vietnam, la Banca Mondiale. I due capolavori di Mc Namara
Bene ha scritto Jerry Mander (in Goldsmith, Edward e Mander, Le procès
de la mondialisation, Fayard, Paris, 2001): “Vergognandosi del ruolo
giocato durante la guerra del Vietnam, ha voluto riscattarsi accorrendo
in soccorso dei poveri del Terzo Mondo. Da buon tecnocrate, si è  messo
al lavoro con l’arroganza di un autentico credente. “La
quantificazione, a mio modo di vedere, è un linguaggio che aggiunge
precisione al ragionamento. Ho sempre pensato che più una questione è
importante, meno numerosi devono essere quelli che prendono le
decisioni”, scrive nel suo “In retrospect: The tragedy and Lessons of
Vietnam” (Guardando indietro: la tragedia del Vietnam e le sue
lezioni).
Riponendo
la massima fiducia nelle cifre, McNamara ha spinto
i paesi del Terzo Mondo ad accettare le condizioni di prestito della
Banca Mondiale e a trasformare le loro economie tradizionali puntando
al massimo sulla specializzazione economica e sul commercio mondiale.
Chi si rifiutava veniva abbandonato alla sua sorte… Su sua istanza,
numerosi paesi non ebbero altra scelta che passare sotto le forche
caudine della Banca. Non erano più villaggi quelli che McNamara
distruggeva pur di salvarli, ma intere economie. Il Terzo Mondo è oggi
pieno di grandi dighe interrate, strade in rovina che non portano da
nessuna parte, palazzi per uffici completamente deserti, foreste e
campagne devastate e debiti mostruosi che non potranno mai essere
rimborsati. Questi sono i frutti avvelenati della politica condotta
dalla Banca Mondiale, dall’epoca di McNamara, fino ai giorni nostri.
Per quanto grandi siano state le distruzioni che quest’uomo ha seminato
in Vietnam, durante  il suo mandato alla banca è riuscito a
superare se
stesso”.

Ogni tanto la Banca cambia orientamento. L’ha fatto anche recentemente,
dopo le severe e convincenti critiche del suo ex vice-presidente, il
premio Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz. Ma sin tanto che la
filosofia di base sarà il “consenso di Washington”, una filosofia che
va bene per il consenso di chi ha ispirato questo documento, e non
anche per il consenso dei popoli interessati, non  vi è alcuna
prospettiva positiva, di alcun genere. Ma, per ora, la Banca mondiale è
l’unico istituto a fare credito agli stati più poveri. E qui sta il
problema.

Le disastrose politiche del FMI e del WTO

Se la Banca mondiale, che pure ha una sua autonomia e dignità, è
criticabile, il Fondo Monetario Internazionale (FMI), totalmente al
servizio diretto della politica estera americana, è un autentico
disastro, una minaccia per il futuro dell’umanità, un emblema di quello
che alcuni economisti tedeschi hanno definito “Killerkapitalismus”.
Sono giudizi gravi, ma le analisi e le denunce che li sostengono sono
ormai tante, serie, unidirezionali, documentate e convincenti. Ancora
una volta a partire da quelle di Joseph Stiglitz ma, per non fermarsi
allo stesso, alle denunce di Jeffrey Sachs (uomo della destra
conservatrice, docente di Harvard), a quelle di tanti responsabili ed
onesti capi di governo dei paesi più poveri, che vedono distrutte le
loro economie reali dai metodi del FMI (dal quale peraltro sono
totalmente ricattati; e qui sta il problema), ai rapporti dell’UNCTAD
(la Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo) e
del suo segretario generale Rubens Ricupero che accusa il sistema
(Banca Mondiale, FMI, WTO) di imporre ai paesi più poveri “un disarmo
economico unilaterale”. Dice Ricupero: “(L’origine della miseria) sta
nell’abisso tra la retorica dell’ordine internazionale liberista e la
sua realtà. In  nessun altro luogo questo divario è più flagrante che
nel sistema commerciale internazionale”.

E, infatti, con il WTO che il sistema stringe le sue maglie in modo da
non lasciare ai paesi poveri speranza alcuna. Creata nel 1994
l’organizzazione mondiale del commercio è una modesta organizzazione
(350 persone ed un budget 2002 di 82 milioni di dollari) dotata di un
potere immenso. Il suo primo direttore, l’italiano Renato Ruggiero,
l’ha definita “a perpectual process of negotiation”.
Questo sistema
permanente di negoziazione sembra  avere l’obiettivo di assicurare il
perdurare degli scambi ineguali tra i paesi ricchi ed i paesi poveri.
La maggior parte dei prodotti agricoli del Sud resta tagliata fuori dai
ricchi mercato del mondo, le cui agricolture ( paesi OCSE) hanno
ricevuto nel 2002 sovvenzioni per 335 miliardi di dollari. Questo
spiega  tante cose, riassumibili in un dato che trovo agghiacciante:
l’attuale mercato annuo di trattori in tutta l’Africa è di 8000
trattori (come il Lombardo- Veneto), mentre trent’anni fa era di 20.000
trattori.
Sarebbe ingiusto dire del WTO quello che si può dire del FMI,
cioè di essere un organismo al servizio esclusivo degli Stati Uniti.
Questo è un organismo nemico dello sviluppo  nel mondo, al quale
partecipano, con responsabilità analoghe, Stati Uniti, Giappone,
Canada, Unione Europea. Anzi la responsabilità dei governi è
relativamente modesta. Infatti, come ha concluso la sottocommissione
per la promozione e la protezione dei diritti umani dell’ONU: “Il WTO è
quasi totalmente nelle mani delle società transcontinentali private”.
Insomma è una cosa prevalentemente privata, la manifestazione più
evidente di  quella “stateless global governance”, che è alla base
dell’ideologia del “Consenso di Washington”. Questo passaggio è
fondamentale. Senza di esso è difficile capire cosa succede. Come
potrebbero degli Stati responsabili promuovere pratiche tanto
irresponsabili? Come potrebbero approvare un accordo come quello TRIPS,
sui diritti di proprietà intellettuale legati al commercio, nato
nell’ambito del WTO, accordo micidiale per le comunità ancestrali
dell’Africa, dei Caraibi, dell’Asia, dell’America Latina? La
perversione dell’accordo TRIPS è troppo evidente, come fonte e
legittimazione di quella che è stata giustamente chiamata
“biopirateria”.
Ma questo accordo, per l’economista dello sviluppo,
pone la pietra tombale su ogni ulteriore “retorica dell’ordine
internazionale” sui temi dello sviluppo. Non si può volere lo sviluppo
o, nel contempo, volere un accordo come TRIPS. Perché questo accordo
colpisce alla base il fondamento  di ogni seria politica di sviluppo:
la tutela e la diffusione della conoscenza. Qui si vuole appropriarsi
persino delle antiche conoscenze dei popoli poveri e trasformarle in
conoscenze monopolistiche, brevettate. Invero l’accordo TRIPS
rappresenta il massimo che le menti perverse del capitalismo odierno
potevano immaginare contro lo sviluppo dei paesi poveri e giustifica
appieno il giudizio di Ziegler: “Il capitalismo contemporaneo è stupido
e cinico, ha completamente dimenticato le sue origine protestanti. Non 
ci si può aspettare molto da lui: bisogna combatterlo, isolarlo e
screditarlo”.


Stiamo andando verso il disastro. E ancora troppo deboli sono gli antagonisti della globalizzazione

L’implacabile e stolta macchina della globalizzazione, come applicata
da Banca Mondiale, FMI, WTO  e sorretta, quando necessario, dalle
armate statunitensi, ci sta portando verso il disastro. Per ora stanno
nascendo tanti movimenti di reazione basati sulla difesa di singole
identità. Ma in mezzo si sta creando un grande buco nero, come ha
scritto con molta lucidità Alaine Touraine: “Tra il mercato planetario
e globalizzato e le miriadi di movimenti identitari che nascono ai suoi
margini c’è un grande buco nero. In questo buco rischiano di
precipitare la volontà generale, la nazione, lo stato, i valori, la
morale pubblica, le relazione intersoggettive, in breve: la società”.
Vi è qualche speranza di riempire questo grande buco nero? Le
prospettive sembrano prossime allo zero, tanto forte e compatta appare
l’armata formata da: politica imperialista e militare USA, filosofia
del consenso di Washington, Banca mondiale, FMI, WTO.


Vorrei permettermi un sogno

Ma proprio la mancanza di prospettive ragionevoli e la conseguente
disperazione, legittima la possibilità di coltivare un sogno. Ed
anch’io ho un sogno che  voglio confessare, accettando il rischio di
essere accusato di ingenuità.

La pericolosità delle tendenze della globalizzazione dei produttori ha
generato importanti anticorpi, rappresentati dai movimenti non violenti
che si battono per un mondo dove non sia più vero quello che ha detto
Warren Adelman, presidente dell’organizzazione non governativa canadese
Rights and Democracy: “Abitiamo in un mondo in cui è infinitamente più
grave violare una regola del commercio internazionale che un diritto
umano”.
Questi movimenti sono tanti ed importanti, come il Forum
sociale di Porto Alegre ha  evidenziato, dal brasiliano Movimento dos
trabalhadores rurais sen terra
(BST) al movimento di origine francese
ma ormai internazionale ATTAC, a tanti movimenti sindacali, ecologisti,
e di altra natura. Essi rappresentano, singolarmente e nel loro
insieme, una speranza per la pace, lo sviluppo e la civilizzazione nel
mondo. Ma la situazione è così terribile, ed i tempi a disposizione
prima di affondare irreparabilmente nella spirale dell’odio così brevi,
che è necessario qualche grande voce, qualche voce ufficiale, qualche
istituzione storica, che si faccia carico di riempire quel buco nero,
che si impegni direttamente, personalmente contro l’imbarbarimento del
mondo. E qui inizia il mio sogno. Io sogno che entrino in campo,
insieme, le due grandi religioni del mondo, quella cristiana e quella
islamica, non per perseguire un impossibile e inutile accordo sul piano
teologico, ma una possibile e preziosa collaborazione sul piano storico
e umano. Per insegnare, loro che sono state a lungo accusate di
coltivare l’intolleranza, la convivenza di civiltà.
Io sogno che esse
si ribellino ad essere utilizzate, un’altra volta, come “instrumentum
regni” per coprire gli interesse delle multinazionali del petrolio,
degli armamenti, dell’industria farmaceutica, dell’industria
alimentare, dell’industria informatica, dell’industria finanziaria.
Perché questo e nient’altro che questo si cela dietro il preteso
scontro tra la religione islamica e quella cristiana. Esse da secoli
convivono pacificamente e possono tranquillamente continuare a farlo,
e se non possono più farlo è perché gli uomini del potere, si chiamino
Bin Laden (probabilmente il più in buona fede) o Bush (la sua
escalation religiosa è, nel suo cinismo, ributtante e preoccupante),
cercano di strumentalizzarle per i loro fini. Allora queste
grandi religioni devono ribellarsi e lungi dal lasciarsi trascinare
nella spirale dell’odio, devono ricercare un patto al servizio della
pace, dell’uomo e del pacifico sviluppo. Le differenze teologiche non
impediscono un patto di collaborazione contro la falsità, la violenza,
l’imbroglio, lo sfruttamento cinico e feroce che stanno portando il
mondo alla rovina.

Non mi nascondo le enormi difficoltà ivi compresa quella di trovare
degli interlocutori sufficientemente rappresentativi nel frazionato
mondo islamico. Ma la situazione è talmente grave da richiedere uno
sforzo ed un rischio eccezionali. Si tratta di creare un nucleo di
pensiero e di azione comune, che riponga al centro il rispetto
dell’uomo e la necessità di uno sviluppo civile ed economico,
rispettoso delle identità e delle differenze. Si tratta di dar vita ad
un centro di pensiero e di azione che rovesci, letteralmente rovesci,
il “consenso di Washington”, e la mentalità primitiva di cui è
espressione e tutto quello che ne deriva in parole, opere, omissioni.
Questa azione può senz’altro collegarsi a quella dell’UNCTAD (La
Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo) che,
degli organismi internazionali esistenti, è l’unico che pensa in questa
direzione.  


Uno spazio per la nuova Europa

La seconda parte del sogno è che la nuova Europa ricerchi e trovi
proprio su questi temi un nuova identità ed una sua specificità. In un
intervento sul Corriere del 23 aprile 2003 l’allora presidente Prodi
rispose, in modo egregio, ad uno sconcertante articolo di Panebianco
sui rapporti tra Europa e USA. “Panebianco afferma che una parte di
europei, essenzialmente coloro che si sono opposti alla guerra in Iraq,
attribuiscono all’Unione Europea il compito di “bilanciare” la potenza
americana. Ma – così prosegue il ragionamento di Panebianco – poiché
in politica internazionale ci si bilancia solo fra nemici e non tra
amici, quello che questi europei davvero vogliono è nientemeno che la
dissoluzione della storica alleanza tra Europa e Stati Uniti. In questa
categoria di europei sostanzialmente antiamericani Panebianco mette
anche me. Voglio, quindi, dire nel modo più netto possibile che la sua
è una lettura che contesto alla radice e respingo. La contesto e la
respingo perché i vincoli di alleanza e di amicizia tra America ed
Europa, che Panebianco ha in mente e ci vuole offrire come modello per
il futuro, sono solo quelli che possono correre tra un sovrano e un
suddito."
"Non è questo il mondo che ho in mente, che io voglio. L’alleanza e
l’amicizia tra America ed Europa per le quali io lavoro sono basate
sulla dignità. Sulla pari dignità delle due parti. Non dipingiamo
un’Europa divisa tra americani e antiamericani. E’ un’immagine falsa.
E’ un’immagine che non corrisponde ai disegni, ai pensieri e ai
progetti di alcuno, tra i responsabili della politica europea. Ma non
offriamo neppure, come ricetta per il futuro, un’alleanza tra Europa e
America priva di dignità. La nuova e grande Europa dell’allargamento
sarà un’amica vera e, dunque, preziosa dell’America soltanto se il loro
reciproco rapporto sarà basato sul rispetto e sulla dignità”.
Vi è solo
un passaggio di quel bell’intervento di Prodi che mi ha lasciato perplesso.
Ed è quando Prodi mi pare auspicasse un forte, unitario impegno militare
per l’Europa. Ma per difenderci da chi, da che cosa? I nemici
dell’Europa sono la miseria dell’Africa, le ondate dei fuggiaschi dalle
violenze politiche, dalla povertà, dall’emergenza ambientale. I nemici
dell’Europa sono la crescente diminuzione del rispetto dell’uomo, la
globalizzazione delle cannoniere, la retorica del WTO, spietata
macchina da guerra contro i poveri. L’Europa non può e non deve
impegnarsi in una gara al riarmo con gli USA, dalla quale rimarrà
sempre e comunque distaccata e che brucerebbe inutilmente tante nuove
preziose risorse. Ma deve impegnarsi contro la miseria, contro la
perversa concezione dello sviluppo che domina gli ambienti del consenso
di Washington, contro la privatizzazione del mondo a favore delle
multinazionali. A favore di uno sviluppo a misura d’uomo, come
insegnano le sue migliori tradizioni, tante volte da lei stessa tradite
ma mai perse. E’ qui che la corsa ha delle possibilità di vederla in
testa, ritrovando anche un’antica America, che sembra sparita ma che
sparita non è. E’ solo dispersa.

E c’è bisogno di una nuova grande banca etica

La terza parte del sogno è che, come conseguenza di una congiunta
azione dei rappresentanti delle due grandi religioni e dell’Europa, o
di alcuni paesi europei, si dia vita, in Europa, ad una nuova banca per
lo sviluppo dei paesi più poveri (PMA) alimentata da capitali europei
ed islamici (una specie di grande banca etica), in grado di rompere il
monopolio ed il ricatto del FMI, guidata da uomini come Joseph
Stiglitz, e come Yunus, che si ponga come obiettivo quello di
finanziare veramente lo sviluppo reale dei paesi poveri e non
l’osservanza delle ridicole ed insensate regole del FMI, escludendo
qualunque operazione che finisca per alimentare i cleptocrati,
concentrandosi su quei paesi dove ciò sia realistico e possibile (e ne
esistono) ed accompagnando i finanziamenti con un’azione di assistenza
e tutoraggio, attraverso le ONG e altri organismi adatti e competenti.

Il muro di Berlino non esiste più ma tra il Messico e gli USA esiste un
muro di 3200 km costellato di torrette e filo spinato, lungo il quale
nel 2000 le Boarder Guards hanno ucciso 419 disperati che cercavano di
entrare negli USA. Tra i due muri esiste una differenza sostanziale.
Quella di Berlino impediva ai propri cittadini la fuga dal proprio
stato. Quello tra Messico e USA cerca di impedire l’ingresso negli USA
di stranieri non autorizzati. Sul piano legale la differenza è
profonda. Ma resta il fatto che, ovunque, i “flagelados” del mondo sono
violentemente respinti nella loro fuga verso una qualche speranza di
vita civile. Eppure il diritto all’emigrazione è iscritto nella
Dichiarazione Universale dei diritti umani. Nel frattempo organismi
come il FMI devastano le economie reali dei paesi più poveri, impedendo
loro qualunque sviluppo seriamente fondato e trasformandoli in
accattoni assistiti. Così non si può andare avanti. Di fronte a noi,
proseguendo su questa strada, vi è un baratro sicuro. Risvegliamoci. O
almeno, se vogliamo continuare a dormire, incominciamo a sognare.

 

 

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