RIFORMA DELLE PENSIONI, UN’OCCASIONE PERDUTA

La quarta riforma delle pensioni, lungi dal razionalizzare la situazione esistente, la rende ancora più irrazionale. Non elimina, anzi accresce, i privilegi di chi ancora beneficia del  sistema retributivo, non risolve i problemi di chi è sottoposto al sistema contributivo. In definitiva, un peggioramento che poteva – e doveva – essere evitato.
Articolo di Fernando Di Nicola
Commentare il recente accordo tra Governo, Sindacati e Confindustria in tema di pensioni è un’operazione ardua, per chi scrive e per chi legge: l’argomento coinvolge molte variabili, interconnesse tra loro, e la necessaria selezione degli aspetti del sistema spinge a conclusioni che possono differire anche notevolmente da quelle cui si arriverebbe considerando, o anche solo enfatizzando, altri elementi. Darò qui la mia chiave di lettura, cercando di argomentare con molta sintesi gli aspetti che ritengo rilevanti.

I due sistemi
Per le valutazioni che farò è essenziale ricordare preliminarmente che il sistema pensionistico italiano a ripartizione (quello cioè che finanzia le pensioni erogate con gli introiti correnti, contributivi e di altro genere) fa convivere, come “separati in casa”, due meccanismi di determinazione dei trattamenti molto diversi: il retributivo (in applicazione a chi a fine 1995 aveva già 18 anni di contributi) ed il contributivo, in toto o pro quota (che si applicherà agli altri, cioè i più giovani).  
Il contributivo, scelto come metodo futuro di determinazione dei trattamenti, è piuttosto semplice e trasparente nei meccanismi allocativi, in quanto ispirato ad una “capitalizzazione virtuale” cioè al trattamento che un fondo pensione riserverebbe ad un iscritto, accumulando gli accantonamenti, facendoli fruttare e determinando la pensione con riferimento al montante accumulato ed agli anni di vita statisticamente rimasti al pensionando.  Per semplificare, si può dire che è un sistema che non regala niente, e si limita a restituire, con logica assicurativa-attuariale, quanto versato dai singoli, anche se materialmente il finanziamento delle pensioni in essere deriva, in termini di cassa, dalla provvista di contributi degli occupati e, se necessario per periodi transitori, dalla fiscalità generale o da indebitamento.  Per questo motivo, l’epocale riforma Dini del 1995 rimosse alcuni vincoli incoerenti con questa logica: non era più necessario accumulare 20 anni di contributi per acquisire il diritto, si poteva scegliere abbastanza liberamente l’età del pensionamento dai 57 anni e senza ulteriori vincoli di 35 anni di contribuzione (ricevendo un maggiore o minore trattamento in base al montante ed all’età residua stimata), non era importante (almeno a livello di principio) in quale cassa si versavano i contributi, perché andavano visti come gli alimentatori di un unico montante.
 
Le insidie del retributivo
Il retributivo, invece, era (è!) pieno di insidie, redistribuzioni occulte, spesso inique o casuali, con una media nettamente favorevole al pensionando: la pensione non tiene conto dell’intero ammontare di contributi versati, ma della retribuzione degli ultimi anni (mesi per i dipendenti pubblici), a prescindere non solo da quale fosse stata la retribuzione precedente, ma anche dalla percentuale di contribuzione.  Ne derivavano (derivano!) elargizioni (cioè maggiori trattamenti rispetto a quanto ciascuno avrebbe ottenuto con un meccanismo attuariale) che erano o casuali (ad esempio un dipendente che negli ultimi anni raggiungeva una promozione stipendiale e vedeva calcolarsi la pensione in base a quella, oppure un contribuente che raggiungeva gli stessi anni di contribuzione di un altro, ma ad una età inferiore, ricevendo quindi lo stesso ammontare per più anni) o “dolosamente” determinate (il dipendente trattava col datore una finta promozione a fine carriera, il dipendente pubblico indesiderato scambiava una promozione col successivo immediato pensionamento, l’autonomo dichiarava un maggior reddito a fine carriera, agganciando ad esso la sua pensione).  
Ma va detto che anche figure lavorative normali, non caratterizzate da dolo o carriere travolgenti, traevano beneficio da quel sistema, incamerando di fatto un pezzo di pensione legato alla differenza tra retribuzione di inizio e fine carriera, nonché in taluni casi (ad es. gli operai del nord, spesso messi in regola appena finita la scuola dell’obbligo) il precoce inizio dell’attività lavorativa.  
 Per riassumere, il retributivo contiene in se un “regalo” attuariale più o meno ingente, a carico della fiscalità generale o dell’indebitamento, e questo spiega perché tale regalo fosse vincolato alla presenza di condizioni restrittive altrimenti immotivate: un minimo di 20 anni di contribuzione per averne diritto, 35 anni di contribuzione per andare in pensione (che scendevano addirittura a 15-20 anni per i dipendenti pubblici, negli anni di formazione del gigantesco debito pubblico), vincoli alle contribuzioni volontarie ed alle ricongiunzioni, età minime per la pensione di vecchiaia, ecc.  
Si noti infine che le differenze tra i vari meccanismi in termini di trattamenti annui, protratti per decenni, sono quantificabili per ciascuno in decine di migliaia di euro, e non in poche decine di euro, come avviene invece spesso per riforme Irpef tanto vivacemente dibattute.
Riforma Prodi-Damiano, aumentano le contraddizioni
E’ con la consapevolezza di questi elementi, oltre che della continua commistione in fase di decisione politica tra valutazioni di dare-avere dei singoli ed esigenze di cassa dello Stato, che possono essere meglio osservate le discussioni sulle riforme del sistema pensionistico e in particolare la “quarta” riforma (dopo quelle Amato, Dini, Maroni) da poco concordata: ne derivano ricette auspicabili molto diverse da quelle che sono prevalse prima con la riforma Maroni e, di recente, con quella “Prodi-Damiano”.
Ci limitiamo ad un esempio: se la presenza della “gobba”, cioè di un aumento della spesa previdenziale, in rapporto al PIL, fino al 2030-2035 e di una sua successiva decrescita, va spiegata non tanto in base alla crescita di trattamenti pensionistici o all’allungamento della vita (perché altrimenti non ci sarebbe una gobba ma una crescita o una costanza) quanto in base al pensionamento delle generazioni del “baby boom” – evento una tantum – poi compensato dalla quota decrescente dei trattamenti retributivi, sostituiti gradualmente da quelli contributivi, di gran lunga meno generosi, allora le preoccupazioni di bilancio previdenziale e di deficit pubblico avrebbero dovuto trovare opportunamente una soluzione nel contenimento dei fattori di spesa legati ai trattamenti retributivi, concausa di quella gobba.
E invece, dapprima la riforma Maroni introduce un inspiegabile vincolo di 35 anni di contribuzione per pensioni di tipo contributivo (che senso ha vincolare l’anzianità contributiva a chi non chiede nulla al bilancio pubblico ed a quello previdenziale, se non quello di ritardare – più che eliminare – alcuni esborsi?); poi, l’accordo Prodi-Damiano aumenta la spesa previdenziale destinata ai pensionandi retributivi (quelli, come abbiamo visto, già beneficiati da un “regalo” pensionistico) di circa 10 miliardi in un decennio e per coprirla dal punto di vista della cassa ricorre per quasi la metà all’aumento dei contributi per soggetti contributivi (i collaboratori continuativi o a progetto). In questo modo, però, si rinuncia ad un introito che avrebbe dovuto costituire un avanzo di bilancio previdenziale destinato ai futuri maggiori trattamenti (eventualmente utilizzabile nell’immediato per fini ritenuti meritori), mentre la mancata copertura interna delle migliorie ai retributivi prefigura attuali o futuri gravami fiscali o di spesa sui più giovani, accentuando così le già ampie sperequazioni tra generazioni.
E ancora, si è discusso per mesi della auspicabile “purezza attuariale” del sistema contributivo e, dunque, dell’urgenza dell’adeguamento dei coefficienti di “trasformazione” del montante in pensione annua in base all’età residua, quando in primo luogo i pensionandi contributivi fino al 2014 saranno pressoché assenti, ed in secondo luogo l’applicazione di coefficienti di trasformazione indistinti tra uomini e donne, caratterizzati invece da età residue molto diverse, non solo costituisce un sostanziale allontanamento dal calcolo contributivo-attuariale, ma renderebbe i futuri trattamenti pensionistici dei maschi inferiori ad un corretto calcolo di tipo fondo pensione (spingendoli peraltro a minimizzare la loro partecipazione al sistema obbligatorio pubblico).  Sempre su questo punto, mentre si è sentita l’esigenza di dedicare ampio spazio al rigoroso adeguamento di quei coefficienti, addirittura con cadenza triennale anziché decennale, un curioso e asimmetrico oblio ha fatto “dimenticare” di rimuovere gli irragionevoli vincoli di anzianità introdotti dalla riforma Maroni per l’accesso ai trattamenti interamente contributivi.  
Distrazioni che  costeranno care 
Si consideri che il non poter optare per il contributivo condanna molti disoccupati ultracinquantacinquenni, problema crescente del mercato del lavoro, a dover attendere senza stipendio e senza pensione (retributiva) il compimento dei 65 anni, laddove l’opzione contributiva consentirebbe loro di accontentarsi di un minor trattamento, trasformando in pensione i propri accantonamenti previdenziali, senza nulla chiedere allo Stato ed evitando al contempo anni di povertà assoluta. Perché non consentirlo al compimento dei 57 anni e senza vincoli di anzianità contributiva?
Come si vede, è alto il prezzo che si paga alla più o meno consapevole disattenzione per la convivenza dei sistemi di calcolo retributivo e contributivo ed alle ingenti implicazioni allocative e redistributive che ne conseguono.

Quote poco flessibili… 
Vediamo, in sintesi, qualche altro punto del protocollo d’intesa.
Dopo diversi anni che se ne parlava, l'accordo introduce, per le pensioni di anzianità retributive, una nuova condizione per andare in pensione basata sulle cosiddette “quote”, cioè sulla somma di età ed anzianità contributiva. Per i sostenitori delle quote, questo indicatore aveva almeno due vantaggi:  

  • introduceva una più equilibrata flessibilità nelle condizioni di pensionamento, condizionata al contestuale mix dei due principali indicatori (età e anzianità contributiva).
  • facilitava un intervento sul fronte del livello dei trattamenti, in quanto consentiva il cosiddetto “decalage”, cioè una riduzione dei trattamenti proporzionale alla differenza rispetto ad una quota stabilita. 
In questo modo si poteva intervenire non solo sulle condizioni di accesso, cioè sul numero dei pensionati, ma anche sul secondo fattore di spesa, cioè sui trattamenti, avvicinandosi leggermente alla logica del contributivo.
L’accordo invece introduce le quote (95 dal 2009, 96 dal 2011, 97 dal 2013), ma con forti vincoli sull’età minima (rispettivamente 59, 60 e 61 anni per i dipendenti, un anno in più per gli autonomi), dunque senza introdurre una sostanziale flessibilità e senza alcun riferimento ai trattamenti, cioè ad una riduzione della pensione per chi fosse intenzionato ad andare in pensione prima del raggiungimento di una quota ritenuta ragionevole e sostenibile.  
Un nuovo "scalone"
Priva degli elementi di flessibilità, l’introduzione delle quote manca l’occasione di adeguare anche le pensioni retributive alle mutevoli e personali esigenze sul mercato del lavoro moderno senza gravare sul bilancio pubblico; inoltre, non essendo toccato un altro caposaldo del vecchio approccio, e cioè il diritto di andare in pensione a qualsiasi età con 40 anni di contribuzione, si crea una specie di nuovo paradossale “scalone”: ad alcuni non basterà avere 60 anni e 39 di contribuzione per andare in pensione, dovendo aspettare i 61 anni e quindi il quarantesimo anno di contribuzione (“quota 101”), mentre per altri (il citato “operaio del nord”, non a caso segmento di rilievo sia per la Lega di Maroni che per i sindacati confederali, coautori della neo riforma) sarà sempre possibile andare in pensione a 54 anni con 40 anni di contributi (“quota 94”), percependo di fatto un valore attualizzato pensionistico – a parità di annualità e contributi versati – di circa il 40% superiore all’altro caso.  Chi scrive non riesce perciò davvero a comprendere i malumori della FIOM per un accordo che lascia inalterati, e quindi accresciuti in termini relativi, i regali pensionistici di categoria.
 
Pensioni femminili, un'altra occasione perduta
In tema di paradossi, dovuti ad un mix di miti intoccabili e dimenticanze dovute alla fretta di fare cassa, non si può non citare quello del pensionamento femminile. Sappiamo che le donne sono più longeve e vivono circa 5 anni in più di vita residua (molto in tema di pensioni), ma possono andare in pensione di vecchiaia 5 anni prima (60 anni anziché 65), in considerazione di attività di cura dei figli e della casa statisticamente spalmate su tutte, a prescindere dall’effettività della condizione (tant’è che la UE sta per contestare all’Italia questa differenza di trattamento).  Bene, l’accordo introduce un vincolo di età per il pensionamento di anzianità – 61 anni, più 36 di contributi, dal 2013 – che è molto più stringente dei 60 anni e 20 di contributi sufficienti alle donne per andare in pensione di vecchiaia. Dunque, un vincolo per il pensionamento di anzianità inapplicabile perché maggiore di quello per il pensionamento di vecchiaia!
 
La questione "giovani"
In conclusione, e nell’ambito di un giudizio evidentemente negativo sull’accordo di riforma, una considerazione sul rilievo che sarebbe stato dato “ai giovani”, soggetti al sistema contributivo.  Si è detto che questo accordo, nell’aumentare la spesa pensionistica “retributiva”, di fatto accolla alle giovani generazioni di contribuire anche al rafforzamento del “bonus previdenziale retributivo”, che si aggiunge agli oneri per il preesistente deficit previdenziale e più in generale per il ripiano del debito pubblico accumulato dalle generazioni precedenti.  L’aumento dei contributi a carico dei collaboratori – la misura più rilevante che li riguarda, al di là delle affermazioni retoriche – può essere considerata un passo opportuno sia verso la maggiore neutralità contributiva nel mercato del lavoro (oggi conviene assumere un collaboratore anziché un dipendente anche perché costa meno come aliquota contributiva), sia per far avere loro pensioni future (contributive) meno misere.   Anche qui però si registra una promessa mancata del sistema contributivo e del recente accordo, in quanto occorrerebbe completare davvero la riforma Dini, introducendo un vero e completo “totalizzatore” delle pensioni contributive, cioè l’unificazione automatica e senza costi di qualsiasi contributo versato per arrivare al calcolo del montante contributivo e quindi della pensione spettante.  Ma il bisogno di entrate da destinare alle pensioni retributive ha finora impedito questo banale quanto fondamentale complemento della riforma contributiva. (30 luglio 2007)

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