Il momento delle riflessioni e dei bilanci arriva per tutti, in genere quando si è molto avanti con gli anni. Vale anche per i grandi personaggi della storia, protagonisti di avventure memorabili ed esistenze ricche di emozioni. Come la celebre regina di Sparta e moglie di Menelao, al centro di una delle più straordinarie vicende mai narrate: la guerra di Troia. Dal 30 gennaio al 2 febbraio al teatro di Villa Torlonia viene presentato “Elena”, opera di Ghiannis Ritsos tradotta da Nicola Crocetti, con Elena Arvigo accompagnata da Monica Santoro. Un monologo struggente e profondo che affronta le grandi domande della vita toccando le corde dell’anima.
Il crepuscolo della vita avvicina i destini delle persone perché le accomuna. Le porta a guardarsi dentro e a riflettere su ciò che è stato, al di là delle differenze sociali e delle distanze culturali o geografiche. Per questo il poemetto “Elena”, ispirato alla celebre regina di Sparta, non narra solo una storia, ma tutte le storie di coloro che si trovino a dover affrontare i dubbi e i fantasmi del passato, cercando sollievo nei ricordi e provando a sfuggire alla solitudine. L’opera infatti fu scritta da Ghiannis Ritsos durante gli anni che egli strascorse in detenzione nei campi di concentramento di Karlovasi, in Grecia, durante il periodo del regime militare dei colonnelli. L’autore quindi cercò nella poesia un antidoto alla sofferenza e, insieme, un modo di comunicare eludendo le catene dell’oppressione.
A dare voce al messaggio amaro e intimo della Elena di Ritsos è per ironia della sorte un’altra Elena, la bravissima attrice e regista Arvigo, accompagnata dalla cantante e attrice Monica Santoro, che riesce a condurre il pubblico in un viaggio nei meandri dell’animo umano, fino a raggiungere i ricordi sbiaditi e i nomi perduti, aneddoti e volti, glorie e passioni ormai inaridite dal tempo. “Dimentico i nomi più familiari o li confondo. Suoni, soltanto suoni”. Tutto viene cancellato, “come quando fai un disegno sulla sabbia: per un attimo vedi qualcosa, poi non resta più nulla”. “Non è strano che eventi che noi avevamo definiti importanti si dissolvano, scompaiano?”. Che senso ha quindi tormentarsi per conseguire traguardi che si rivelano effimeri? Penare per vanità o vacue ambizioni e uccidere o essere uccisi in “battaglie che hanno deciso gli altri in nostra assenza”?
Quale significato ha questo peregrinare caotico dell’esistere se dopotutto niente ha senso? Se tutto svanisce cancellato dal trascorrere degli anni come una scritta sulla sabbia? “Forse, chissà, laddove qualcuno resiste senza speranza, è là che inizia la storia umana, come la chiamiamo, e la bellezza dell’uomo tra ferri arrugginiti e ossi di tori e di cavalli, tra antichissimi tripodi su cui arde ancora un po’ d’alloro e il fumo sale nel tramonto sfilacciandosi come un vello d’oro”.
Quindi, forse, il senso della vita sta nel vivere in sé, nell’andare avanti non necessariamente per uno scopo materiale ma per vedere cosa c’è oltre l’orizzonte, al di là di quella collina o dietro quell’angolo di strada. O per combattere, ma non perché ce lo impongano altri ma perché è la nostra coscienza a farlo. Chissà se la regina di Sparta sarebbe d’accordo?