UN CALCIO AI DEBITI

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Decreto "spalma-debiti", lodo Petrucci,
rateizzazioni estreme dei debiti fiscali: quand’è che si capirà che
queste soluzioni tampone non risolvono affatto i problemi strutturali
del calcio italiano? E quand’è che si smetterà di parlare di
professionismo e si comincerà ad attuarlo sul serio? E’ forse l’ora che gli
sportivi, ma soprattutto gli azionisti, si rendano conto che nessuna
delle società dell’attuale serie A svolge un’attività economicamente
redditizia. E che il sistema così com’è non può sopravvivere a lungo

articolo di Gino Nobili

La rivista on-line dell’Agenzia delle Entrate, Fiscooggi.it, ha pubblicato un’interessante inchiesta di Paolo Tenaglia (vedi anche il suo blog, www.paolotenaglia.it) sui debiti fiscali delle società di calcio. Confrontando la situazione con quella dell’anno passato, descritta anche su queste pagine,
non si può non rilevare un certo miglioramento, soprattutto dal punto
di vista dei debiti fiscali. E si capisce allora perché l’Agenzia abbia
deciso di pubblicare la suddetta analisi. Se, però, guardiamo la
situazione complessiva delle società della serie A 2005/2006, il dato è
assolutamente sconfortante.

Vediamo innanzitutto questa tabella, ottenuta
incrociando i dati di bilancio pubblicati di recente da varie fonti e
quelli fiscali tratti proprio dall’analisi di Fiscooggi.
articolo

La tabella evidenzia in verde i dati che si segnalano in positivo, in
arancio le performance particolarmente negative, in giallo quelle
comunque da seguire attentamente.
Nell’ultima colonna vediamo evidenziate le società che hanno in
qualche modo sanato la loro posizione verso il fisco nel corso
dell’ultimo anno. Si segnala tra le altre la Roma, che infatti è forse
la squadra di vertice ad avere più elementi del suo stesso vivaio in
prima squadra. Una scelta – se guardiamo i risultati ottenuti finora –
che si è rivelata pagante anche dal punto di vista sportivo. 
Tra tutte le squadre attualmente in serie A, dunque, solo Messina e
Parma hanno peggiorato la loro posizione fiscale, la prima in maggior
misura, la seconda molto meno ma a fronte di una situazione debitoria
ancora davvero rilevante.

Il rosso spinto dei bilanci
Ma le dolenti note arrivano quando si vanno ad esaminare i bilanci
delle società. Che oramai sono quasi tutte SpA, e molte, forse troppe,
quotate in borsa, ad attirare i risparmi evidentemente utilizzando la
mozione affettiva più che un’attenta analisi della gestione. Si, perché
la notizia è che delle squadre che compongono la massima serie
calcistica italiana nessuna, dico nessuna, ha una gestione
economicamente redditizia. Alcune società, spesso piccole, riescono a
non rimetterci poi tanto. Ma nessuna ci guadagna per davvero. Viene da
chiedersi “chi glielo fa fare”? Ma la risposta viene da lontano…
A dispetto dalla forma societaria “moderna”, infatti, quasi tutte le
società calcistiche italiane (e se usciamo da quelle di vertice
dobbiamo levare il quasi) sono gestite come il Borgorosso football club
di sordiana memoria, insomma come negli anni 50 e 60, da “mecenati” che
scelgono di spendere nel calcio i guadagni di altri settori, per motivi
vari più o meno direttamente pubblicitari. Insomma, il calcio è in
perdita da sempre, ma chi accetta di perderci dei soldi in genere se li
ritrova per vie più o meno traverse. Lo stesso, salvo rare eccezioni, non si può certo dire dei piccoli azionisti.
Se guardiamo la colonna del risultato netto 2005, vediamo che i
migliori risultati sono tutti di società che si trovano a dover
recuperare situazioni debitorie pregresse molto rilevanti. Al primo
posto la Lazio, che ha fatto un attivo di quasi 24 milioni di euro ma
ha ancora 222 milioni di debiti, e sopravvive solo grazie alla
generosissima transazione fiscale che il suo presidente è riuscito ad
ottenere dall’Agenzia delle Entrate, rateizzazione che sarebbe
risultata inconcepibile in qualsiasi altra economia di mercato o
sistema fiscale. Seguono il Chievo, che nonostante abbia una delle più
virtuose gestioni del parco giocatori (specializzazione: valorizzazione
dei brocchi, sconosciuti e di ritorno) ha ancora una situazione
debitoria pari al 150% dei ricavi di una stagione. Lo stesso discorso,
sostituendo “quasi 100%” a “150%”, vale per Lecce, Roma ed Empoli, che
seguono nell’ordine nella classifica delle “virtuose” 2005. E se a
queste squadre aggiungiamo Ascoli e Livorno, comunque in situazioni
debitorie relativamente rilevanti, abbiamo chiuso il circolo dei
bilanci in attivo. Tutte le altre squadre (in giallo o in arancio)
hanno continuato a perdere soldi anche nel 2005, cioè dopo le ultime
annate burrascose seguite all’esplosione della bolla dovuta
all’ubriacatura dei diritti televisivi criptati. Come dire, di
risanamento se ne continua solo a parlare…
Si segnalano particolarmente, in questa speciale classifica di
sciaguratezza, le grandi Inter e Milan ma anche il piccolo Siena,
che ha pensato bene di perdere il primato di squadra con minori debiti
che aveva l’anno prima, aggiungendo ai 5,4 milioni altri 12,6 nel 2005
(almeno, pare, si salverà. Dicono…). Il tutto dimostra che la gestione
segue quasi un unico paradigma, a prescindere dal giro d’affari.
Infatti, le prime tre squadre per ricavi, ovviamente Milan Juve e
Inter, sono anche le prime tre per costi (con l’Inter al comando,
però), e quasi lo stesso vale per le ultime tre, con l’eccezione di
Sampdoria (terzultima per ricavi ma con costi ben più alti) e Chievo
(viceversa).

Un modello all’insegna delle irresponsabilità
Se non fossimo di fronte a Società per Azioni con la pretesa di
quotarsi in borsa, non ci sarebbe nulla da dire: chiunque è libero di
spendere i propri soldi come vuole. Purché però non ci si lamenti o
addirittura si scenda in piazza quando il padrone, stanco di svenarsi
per il giocattolo, magari avendo riconsiderato in merito al fatto se
gli convenga o meno, lo lascia rotto lì per terra. Invece si fanno le
barricate, si va in Parlamento, si scomodano le forze pubbliche e i
tribunali, ma la propria squadra del cuore non deve sparire! Ah no? E
perché non avete fermato il tuo presidente quando scialacquava?
Purtroppo, il paradigma pare mutuato dal quadro più generale dell’economia
e anche della società italiana: l’assenza di responsabilità. La nostra
famosa piccola e media impresa reclama più mercato quando le conviene,
più protezionismo quando non ce la fa. E la nostra cosiddetta grande
impresa reclama concorrenza quando crede di vincere, e pratica
monopolio ogni volta che può. Lo vediamo dappertutto, e ne paghiamo le
spese quotidianamente, ogni volta che telefoniamo o compriamo un
prodotto pubblicizzato in tv. Così, le squadre di calcio usano il
professionismo sportivo come etichetta quando c’è da passare alla cassa
(anche pubblica, oltre che diritti Tv, risparmiatori, eccetera), ma non
intendono minimamente rispettarne l’etica intrinseca.

Il disastro è a due passi, urgente cambiare
Eppure il modello ci sarebbe: lo sport professionistico americano.
Inutile dire che la distanza con questo del nostro calcio è almeno pari
a quella che c’è in campo economico extrasportivo. Ma tant’è: in uno
qualsiasi degli sport professionistici americani una squadra col
bilancio forse anche della migliore delle squadre italiane di serie A
non riuscirebbe a mettere piede. Generalizzando, e semplificando, lì
per avere il diritto di partecipare al campionato devi PRIMA dimostrare
di avere una gestione tale da potertelo permettere, in termini di
bacino d’utenza, stadio, abbonati, bilancio, eccetera. Poi devi pagare
una forte tassa d’iscrizione alla Lega, che però utilizza quei soldi
per una gestione davvero manageriale di tutto ciò che gira intorno al
movimento, a cominciare dai diritti televisivi che contratta
direttamente e divide equamente. Quindi ciascuna squadra ha un tetto
salariale più o meno rigido che non può sforare se non per una
casistica precisa, con controlli di merito da parte della stessa lega
(gli stipendi sono pubblici – incredibile! – e sono difficili e
rischiosi sia i sottobanco che gli sponsor fittizi). E se gli
sforamenti superano una data quota, le società che sforano pagano una
tassa proporzionale alla Lega che risarcisce secondo precisi criteri le
società virtuose. Infine, nessun problema a smobilitare per esigenze di
bilancio uno squadrone per rifondarlo: non ci sono retrocessioni, le
ultime hanno diritto a pescare per prime sul mercato, e c’è tutto il
tempo per tentare di ricominciare un ciclo senza svenarsi (so bene che
questa cosa è la più dura da accettare per la nostra mentalità. Ma per
cominciare, si dovrebbero limitare sia la consistenza dei campionati di
vertice che il numero di retrocessioni e promozioni). E se qualcuno non
rispetta queste regole, fosse anche la squadra di una metropoli, ebbene
è fuori. Niente squadra, almeno fino a quando un nuovo
gruppo dirigente non sarà in grado di portare avanti un progetto
economicamente redditizio.
Ci rendiamo conto che con questi criteri dell’attuale serie A si salverebbero
forse un paio di squadre, e nessuna di quelle famose. Ma forse si
salverebbe il calcio italiano, che anzi recupererebbe la sua dimensione
sportiva, e invece continuando su questa china probabilmente va
incontro alla propria definitiva rovina.

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