L’apertura di stagione dell’Eliseo 2017/2018 comincia, paradossalmente, con una storia che tratta il tema della fine: la fine della vita, dei tempi, della speranza, dell’umanità. “Finale di partita”, opera di Samuel Beckett, viene portata in scena per la regia di Andrea Baracco dai bravissimi Glauco Mauri e Roberto Sturno (che della pièce sono anche produttori), insieme agli ottimi attori non protagonisti, Elisa Di Eusanio e Mauro Mandolini.
Seduto su uno scranno a rotelle, nel centro perfetto di una grande sala vuota che sembra un rifugio post-atomico, dai colori plumbei, un vecchio aristocratico cieco e vessato dagli inesorabili acciacchi dell’età, continua a dettare ordini a un servitore, a volte obbediente e altre irriverente.
La scena è illuminata a malapena da due finestrelle alte, raggiungibili unicamente mediante una scala amovibile, quasi a rappresentare una luce metaforica sul buio di un’interiorità in disgregazione. Lì, nel mezzo, il padrone e il suo servo dominano tutto il tempo la scena di questo atto unico, della durata di un’ora e mezza, con la loro speculare contrapposizione.
Hamm, è costretto a stare sempre seduto, Clov, invece è impossibilitato a sedersi; Hamm ha le chiavi della dispensa ma solo Clov può dargli da mangiare.
Hamm sa di essere alla fine dei suoi giorni, in un palazzo deserto, in una Terra ormai vuota e desolata, sospesa in un tempo senza tempo, ma non rinuncia al suo ruolo e continua a dettare ordini insensati che spesso ritratta all’improvviso, tra capriccio e sadismo. Clov , dal canto suo, non smette di svolgere il suo compito ma tormenta altrettanto il suo re con la minaccia di abbandonarlo.
Va così in scena il botta e risposta tra queste due figure, un botta e risposta sconclusionato, assurdo, decontestualizzato da ogni storia, da ogni prospettiva reale di dialogo, bensì permeato solo sul gusto di giocare, in tal modo, una partita, giunta ormai al finale, in una sorta di braccio di ferro che è l’unica cosa che scandisce il ritmo del palco.
Le altre due figure, in scena, sono Nagg e Nell, i genitori di Hamm, due esseri quasi soprannaturali che, rimasti senza gambe a vegetare in due cassonetti come due tronchi umani, sembrano, più giovani del figlio e, comunque, aver perso ogni sembianza e connotato umano. Di tanto in tanto alzano il coperchio del loro bidone e si inseriscono nei dialoghi che corrono tra servo e padrone.
Questa di Beckett, non è di certo un’opera per tutti e risulta sicuramente incomprensibile al pubblico medio, trattandosi di una rappresentazione che ha bisogno di un’accurata esegesi prima di poter essere vista.
Per accedere alla visione dello spettacolo bisogna conoscere infatti il desiderio dell’autore di incarnare nei suoi personaggi il gioco degli scacchi, in cui era un abile giocatore, e apprendere che, il cosiddetto finale di partita, che dà, peraltro, il titolo all’opera, non si raggiunge ogni volta che si gioca. Dopo l’apertura e il mediogioco, il finale di partita è l’ultima parte dell’incontro ma, se i giocatori presentano una forte disparità di livello, non è infrequente che il migliore riesca a battere l’avversario già nelle prime due fasi. Quando invece i giocatori sono entrambi esperti, si giunge nella fase finale che è contraddistinta dallo scarso numero di pezzi rimasti sulla scacchiera e, a quel punto, il re non resta più solo un pezzo da difendere ma si tramuta, esso stesso, in una pedina d’attacco.
In occasione delle prove dello spettacolo allo Schiller Theater di Berlino, lo stesso Beckett spiegò della sua opera: “Hamm è il re in questa partita a scacchi persa fin dall’inizio. Nel finale fa delle mosse senza senso che soltanto un cattivo giocatore farebbe. Un bravo giocatore avrebbe già rinunciato da tempo. Sta soltanto cercando di rinviare la fine inevitabile”.
Ecco quindi che, alla luce di questo, potremo finalmente comprendere come Hamm incarni il re messo sotto scacco dagli altri personaggi e, in particolare, dal suo servo Clov.
In questo testo, fondamentalmente onirico, la scena diventa quindi il pretesto per rappresentare, tra antinomia e paradosso, l’assoluta mancanza di senso dell’esistere e l’altrettanto assoluta esigenza, tutta umana, di trovarlo.
In tale nichilismo imperante che parla i toni dell’assurdo e del dramma insito sia nell’esistere che nella fine imminente dell’esistenza, di tanto in tanto, dal pubblico, si leva qualche risata degli spettatori mossa da alcune battute di quel botta e risposta che, servo e padrone, portano avanti resistendo al nulla più imperante e alla decontestualizzazione di ogni significato. In fondo, quindi, ha ragione Nagg: non c’è niente di più comico dell’infelicità.