PAKISTAN LEADER DELL’ATOMICA OFFSHORE

pakistan


(3.3.08)
Il Modello pakistano dell'Atomica fai-da-te, ovvero storia del Piccolo Chimico in formato orientale. Le ombre del conflitto atomico in 60 testate schierate ai confini con l'India ma capaci anche di prestarsi allo shopping nucleare

di Cesare A. Romano
 
L'insostenibile pesantezza dell’arsenale nucleare pakistano non costituisce affatto una novità. I servizi segreti e le intelligence dell’intero Pianeta si confrontano da almeno un ventennio con report, analisi e progetti messi in campo nel tentativo, quasi disperato, di mettere a freno o quantomeno di riordinare le esplosive potenzialità accumulate da Islamabad nel corso degli anni. Il risultato è che considerando l’uranio arricchito disponibile, il plutonio, la tecnologia importata e la capacità annuale di produrre materiali di fissaggio, all’incirca 100 kg di uranio, oggi il Pakistan può contare su di un arsenale la cui taglia potenziale è riassumibile in 60 testate nucleari.
 

Insomma, quanto basta per giustificare l’ampiezza degli archivi che le diverse intelligence hanno riservato e dedicato a Islamabad in questi anni. Perfino l’esordio, piuttosto recente, d’una catena di comando tripartito che sovrintende l’arsenale nucleare, fondata sull’interrelazione e il coordinamento dell’Autorità Nazionale di Comando (NCA) con la Strategic Plans Division (SPD) e i Comandi delle Forze Strategiche, non sembra aver schiarito le ombre che continuano indomite a pesare sul nucleare pachistano. A parte il fatto che il via libera definitivo ad una rappresaglia atomica dovrebbe comunque ricevere il via libera finale dal Presidente in carica.

Pakistan: il primo centro atomico offshore
Lo spettro quindi che rende insonni le notti di esperti e responsabili delle diplomazie mondiali è duplice. Innanzitutto, in molti temono che nonostante le armi nucleari siano sotto controllo e restino in sicurezza, la disseminazione sul territorio pakistano di impianti, di logistica e di specifici componenti utilizzabili per le operazioni d’innesco, di fissaggio e di assemblaggio di ordigni atomici offra comunque l’occasione di costituire, come peraltro già avvenuto in passato, una sorta di outlet votato ad alimentare lo shopping internazionale di tecnologia e di materiali finalizzati all’assemblaggio di testate nucleari. In pratica, un vero e proprio Suk atomico, all’interno del quale l’acquirente richiede e il Pakistan consegna. Anni or sono, i compratori che corsero ad affollare questo esotico mercato popolato da bellezze esplosive, come l’uranio arricchito e il plutonio, furono soprattutto nord coreani, iraniani, libici e naturalmente emissari di Al-Qaeda. Sempre in quell’occasione fu il network messo in campo da Abdul Qadeer Khan, oggi ex ma allora ufficiale e responsabile della gestione, almeno d’una sua parte rilevante, dell’apparato nucleare pakistano, che si assunse il compito e la missione, ben retribuita s’intende, di condividere con altri il verbo nucleare, sorta di nuova incombente religione che guadagna proseliti soprattutto tra i musulmani piu’ oltranzisti. Un incubo questo che, rafforzato oggi dall’escalation di crisi continue nel Paese, potrebbe lasciare il confino imposto dalle preoccupazioni per tornare ad occupare uno spazio ben visibile tra i timori del reale. E’ per questo che l’esito delle elezioni, da molti salutato come una svolta democratica e moderata, sembra per il momento aver raffreddato i toni e le ansie relative all’utilizzo improprio dell’arsenale nucleare.

I dilemmi pakistani che inquietano Washington, Mosca, Pechino e Bruxelles

Resta comunque ben saldo lo spettro di quello che viene comunemente considerato lo scenario peggiore. Un’eventualità che genera ancor più cupezza del ripresentarsi d’un nuovo Mister Khan, e che consiste nell’ipotesi d’un vero e proprio colpo di Stato jhiadista o islamico animato da elementi radicali. Cosa ne sarebbe in questo caso dell’arsenale nucleare che oggi è in mani pakistane? L’attuale Segretario di Stato Usa, Condoleeza Rice, rispose così alla medesima domanda avanzata dal Senato nel 2005 ed animata dalla stessa preoccupazione: “Abbiamo tenuto in conto questo problema e siamo pronti a raffrontarci con una simile eventualità”. Risposta diplomatica ma nient’affatto rassicurante. Infatti, il Pakistan dopo l’11 settembre e soprattutto a partire dal 2003 ha si’ ricevuto assistenza statunitense in tema di sicurezza e coordinamento del suo arsenale atomico, all’incirca mezzo miliardo di dollari in termini di fredda contabilità rispetto ai 10 miliardi di aiuti complessivi indirizzati da Washington dal 2001 verso i capitoli di bilancio pakistani, ma il dogma del Divide et Impera professato instancabilmente da Pervez Musharraf ha finito per assicurare un’apparente stabilità politica al prezzo di rendere difficilmente salda la cintura di sicurezza su cui poggia il Paese. Il risultato è che oggi il Pakistan è depositario d’una sola certezza, ovvero quella di non possedere certezze da offrire per quietare i rumori dell’orso che impazza sulla Borsa globale della sicurezza, come quando scende il dubbio sui listini di Wall Street.

Pakistan: lo Stato-Nazione frammentato e il rischio atomico

E a questo riguardo l’aver assunto un codice riservato per la trasmissione degli ordini e per l’avvio dell’innesto finale dell’arma nucleare e, allo stesso tempo, essersi dotati d’un organico sistema tripartito di coordinamento per la gestione dell’intera filiera nucleare non comporta in nessun modo un messaggio rassicurante verso l’esterno, dato che il Paese sembra talmente scisso in fazioni da poter assumere senza riluttanza il titolo di Stato-Nazione Frammentato, forse anticamera d’un nuovo modello di federalismo istituzionale alternativo a quello tradizionale di segno occidentale.

Chi possiede le chiavi dell’atomica pakistana: ancora Musharraf, ma per quanto tempo?

Nel dettaglio, riguardo la catena di comando e di controllo che dovrebbe gestire in ogni sua singola fase la pianificazione, la realizzazione e l’utilizzo di testate nucleari, il perno centrale è costituito dall’Autorità Nazionale di Comando (NCA). Da essa in pratica dipendono la Strategic Plans Division (SPD) e i Comandi delle forze strategiche. L’NCA venne predisposta e avviata nel 2000, subito dopo l’esordio di Musharraf al potere, e sancì in maniera netta il passaggio, per la prima volta, dell’intero programma nucleare sotto il controllo dei militari. In precedenza, piani e strutture strategiche erano gestiti attraverso una complessa macchina burocratica che trovava fondamento nell’autorità civile non in quella in divisa. E comunque, la piena operatività dell’NCA venne raggiunta con la costituzione della Strategic Plans Division (SPD) che, de facto, funziona e agisce come una sorta di segretariato alla dirette dipendenze dell’NCA. In particolare, uno dei compiti specifici dell’SPD è di mantenere aperto e continuo il coordinamento e lo scambio d’informazioni con i Comandi delle Forze Strategiche. All’interno di questo organo l’esercito, la marina e l’aereonautica hanno ciascuna un loro alto ufficiale che le rappresenta presso il Comando generale. Il controllo operativo dell’intero apparato nucleare resta però accentrato saldamente nelle mani dell’NCA. Infatti, è questo organismo che decide e dà il via libera finale all’innesco e all’avvio d’un attacco atomico, anzi, d’una rappresaglia dato che il Pakistan a più volte ripetuto e formalmente ufficializzato in diverse sedi che non impiegherà mai per primo ordigni nucleari, ma soltanto come risposta ed extrema ratio contro eventuali aggressioni. Per muovere verso questa direzione è necessario anche il consenso interno ai membri che siedono nell’NCA. A questo riguardo 10 sono i componenti dell’Autorità Nazionale di Comando: il Presidente, il Primo Ministro, il Capo delle forze aramte, i ministri della Difesa, degli Interni, delle Finanze, il Direttore generale della Strategic Plans Division (SPD), i Comandanti dell’esercito, della marina e dell’aereonautica. La Presidenza dell’Autorità spetta al Presidente del Pakistan che, per ultimo, è chiamato a sottoscrivere le decisioni e le votazioni finali decise in seno all’organismo, anche quella d’una eventuale rappresaglia atomica che, in assenza della controfirma presidenziale, resterebbe in stand by. Dunque, è al Presidente, ovvero a Musharraf che non ha affatto intenzione di lasciare la Presidenza del Paese, che al termine dell’intero processo decisionale spetta la responsabilità finale riguardo l’innesto o il disinnesto dell’arma atomica.

Stati Uniti e Pakistan: oltre 3 miliardi di feeling

Nel 2006 gli Usa hanno firmato un accordo per la vendita di 3,5 miliardi di dollari di armi al Pakistan, innalzando Islamabad al primo posto tra i consumatori di armi made in Usa. Nel dettaglio, si è trattato di 1,4 miliardi per l’acquisto di 36 F16 ultimo modello, con l’aggiunta di una varietà di missili e di bombe con le quali accessoriare gli F16 già in possesso delle forze armate pakistane e dal costo complessivo di circa 640 milioni di dollari. A questi transiti è da aggiungersi un kit completo di nuove applicazioni e di equipaggiamenti con i quali ammodernare gli F16 acquistati negli anni scorsi, per un ammontare totale di circa 890 milioni di dollari. In pratica, dal 1950 al 2001, 3,6 miliardi di dollari in armi erano già state acquistate da Islamabad, ora in un solo anno si è raggiunta la medesima taglia. E questo senza contare anche gli aiuti e i fondi stanziati su capitoli diversi, in veste quindi di aiuti originariamente stanziati per scopi civili che, nel corso dei diversi transiti e alla fine del loro percorso acquisiscono, non sempre ma con un’assidua frequenza, rilievo operativo sul versante militare e della sicurezza piuttosto che su quello puramente civile e amministrativo.

Cronaca d’una relazione antica tra Usa e Pakistan

Ricostruire la storia delle relazioni che nel tempo hanno legato Islamabad a Washington in maniera sempre più stretta, non è affatto semplice.Il tema richiede sintesi. Innanzitutto, se vogliamo rintracciare un’origine, il Pakistan si rivelò un utile alleato nella guerra fredda per contenere l’Urss, siamo negli anni ‘50 e ‘60, nel suo processo d’espansione verso l’Oceano indiano. Il Pakistan da parte sua salutò negli Usa un valido supporter nell’opera e nelle politiche volte a contenere la preponderanza indiana sui suoi confini. Con l’incedere degli anni ‘70, il Pakistan in risposta ai test sotterranei indiani iniziò a sviluppare un suo programma nucleare concreto abbandonando il terreno delle riflessioni filosofiche, un progetto quindi non più soltanto teorico anche se ancora allo stato embrionale. Nel 1979, in risposta gli Usa, già preoccupati dal volgere degli eventi, sospesero gli aiuti a Islamabad. Subito dopo l’invasione afgana da parte di Mosca, le sanzioni furono dapprima congelate, poi rese in effettive e alla fine riposte nel cassetto, con la speranza di arruolare il Pakistan come contrafforte da utilizzare come freno delle ambizioni sovietiche e, a tempo debito, come area logistica dalla quale pianificare, sperimentare organizzare l’espulsione dell’Urss dall’Afghanistan. Con l’avvento di Ronald Reagan alla Casa Bianca, in particolare nel corso della sua prima presidenza, Washington vendette 40 F16 al Pakistan rafforzandone la statura come supporter della crociata americana nell’Asia del Sud contro la muscolarità e l’atletismo militare esibito dai sovietici. Negli anni ’80 il Congresso preoccupato dello sviluppo di un programma nucleare in atto in Pakistan chiese di rivedere gli aiuti e le commesse militari, con annessa la relativa assistenza garantita a Islamabad nei decenni passati e implementata negli eventi successivi all’occupazione sovietica dell’Afghanistan.. Nel 1985 arrivò l’emendamento-Pressler, con il quale si richiedeva al presidente di certificare al Congresso che il Pakistan non possedeva ordigni nucleari e questo per ciascun anno rispetto al quale l’Amministrazione proponeva aiuti militari e assistenza tecnica a Islamabad. Con il ritiro dei sovietici il programma nucleare pakistano venne ancor più attentamente monitorato dagli statunitensi, sempre più preoccupati dai piani ambiziosi dei pakistani volti oramai a dotarsi d’un sistema completo d’armamenti nucleari. Ansie che spinsero Washington, nell’ottobre del 1990 con George Bush alla presidenza, a sospendere l’assistenza militare al Pakistan, tanto che ben 28 F16 restarono praticamente non consegnati negli hangar dell’aereonautica militare Usa. Nel corso degli anni ‘90 gli aiuti e le commesse vennero quindi interrotte o contingentate. Soltanto dopo l’11 settembre l’amministrazione Bush riallacciò il consolidamento dei legami militari con il Pakistan. L’obiettivo, naturalmente, di assicurarsi l’appoggio incondizionato di Islamabad nella lotta al terrorismo. E così nel 2004 il Pakistan venne da Bush incoronato ufficialmente come maggiore alleato esterno della Nato. Riconoscimento che ancor oggi pesa nelle agende diplomatiche di Washington.
Come viaggiano le testate nucleari pakistane
Le testate nucleari in dotazione del Pakistan possono essere trasportate in due modi: da aeroplani, sotto controllo dell’esercito pakistano, e da missili terra/terra o di superficie, anch’essi a disponibili. In particolare, Islamabad può indirizzare le testate nucleari utilizzando gli F16 acquistati in gran numero negli anni passati e anche di recente dagli Usa. Naturalmente, modificandoli e accessoriandoli con apparecchiature ed equipaggiamenti necessari. E comunque, nonostante ciò, gli Usa continuano a sostenere che la vendita degli F16 non altera l’equilibrio di potenza della regione. A questo riguardo, è giusto sottolineare come anche i modelli di Mirage III e V, anch’essi in vendita sulla Borsa degli armamenti correnti, potrebbero facilmente essere utilizzati per finalità di trasporto atomico, ma avrebbero una portata più limitata.

Pakistan, un carosello di missili

Dopo il test missilistico Prithvi, realizzato ed esibito dall’India nel 1988, il Pakistan ha dato il via al suo programma. Il risultato è che oggi si ritiene che siano tre i modelli di missili balistici attualmente sviluppati, testati e in dotazione al Pakistan capaci, potenzialmente ma con un ampio margine di certezza, di condurre a destinazione sui loro obiettivi le testate nucleari di cui Islamabad dispone. Si tratta, nel dettaglio, dei missili Hatf III e Hatf IV. I primi hanno hanno un raggio d’azione di circa 100-290 km, mentre i secondi si spingono fino a 200-650 km. Poi ci sono quelli a medio raggio, gli Hatf V, le cui distanza d’azione è all’incirca di 1200 km. A questi si aggiungono gli Hatf VI, in verità ancora in corso di sviluppo. E per finire c’è anche l’ipotesi dell’Hatf VII, un modello innovativo che dovrebbe consentire al Pakistan di disporre d’un missile cruise a tutti gli effetti nelle versioni terra, cielo e mare.

L’ambiguità pakistana della dottrina del “deterrente nucleare minimo ma credibile”

Dopo l’accordo sui missili balistici del 2005, i test continuano ad essere portati a compimento, ma la novità è che India e Pakistan li notificano reciprocamente e pubblicamente. Comunque, la dottrina strategica che alimenta il nucleare pakistano non è stata, al momento, ancora compiutamente formalizzata. Il Pakistan ha come obiettivo quello di conservare l’integrità territoriale, finalità questa tradizionale degli Stati, quasi da copione, con l’aggiunta che nel caso di attacco indiano, deve essere in grado di prevenire una escalation militare nell’area, soprattutto d’origine indiana, e contrastare la superiorità militare convenzionale del suo rivale storico Nuova Dheli. Riassumendo alla radice dell’atomica pakistana vi è la necessità di dotare il Paese di “Un deterrente nucleare minimo ma credibile”. In pratica, in senso operativo, scoraggiare ogni forma di aggressione esterna combinando force convenzionali e strategiche e, al medesimo tempo, minacciare eventuali rappresaglie atomiche in caso di aggressione. Per raggiungere questi obiettivi è necessario, secondo Islamabad, dotarsi d’un sistema proprio e stabilizzare il deterrente strategico in Asia meridionale. Riguardo il vicino indiano, più volte si è ribadito, da parte pakistana, che si risponderà facendo ricorso al potenziale nucleare, ovvero soltanto nel caso di un attacco nucleare dell’India. Dunque, i pakistani, almeno sulla carta, non saranno i primi ad attaccare, tanto che hanno sovente rassicurato di non lasciarsi prendere dalla corsa agli armamenti atomici rincorrendo l’India. Su questo punto è giusto rammentare che Islamabad ha palesemente fallito. Un fallimento carico di ripensamenti anche di esperti e di osservatori internazionali che oramai sono in gran parte convinti, dopo aver abbandonato sentimenti ottimistici, del fatto che l’ambiguità della dottrina atomica pakistana serva a mantenere alto il livello di guardia e ad innalzare il deterrente potenziale verso l’India in maniera costante e progressiva, senza sosta.

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