INNOVAZIONE INDUSTRIALE, SIAMO FUORI STRADA

fabbrica

Al Forum 2006 della piccola industria, tenuto a Prato nei giorni 20 e 21 ottobre, Marco Vitale ha messo in evidenza i punti critici della legge finanziaria e di altri provvedimenti di politica economica predisposti dal governo. Riportiamo la parte dell'intervento che si occupa del progetto di legge noto come “Industria 2015”, destinato a sostenere l’innovazione industriale.
Intervento di Marco Vitale
Alla finanziaria va abbinato un altro provvedimento in fieri che è la prova del nove di un approccio statalistico, dirigistico e profondamente velleitario ai temi dell’economia e dello sviluppo. Mi riferisco al disegno di legge per l’innovazione industriale (noto come Industria 2015).

Questo provvedimento vuole essere una riflessione sui problemi dell’economia reale, sulla collocazione strategica del nostro paese nell’ambito della nuova divisione internazionale del lavoro e sul ruolo dell’azione pubblica a sostegno dello sviluppo economico.
Il documento parte da alcune premesse corrette: esiste uno scarto grande tra le criticità del sistema e la potenzialità che l’Italia può esprimere; bisogna riportare al centro del dibattito i temi dell’economia reale; siamo convinti che l’industria debba continuare a rappresentare il motore dello sviluppo economico.

Tesi del tutto condivisibili
e che ricordano l’importante Documento confindustriale del club dei quindici presentato nel Forum dello scorso anno. Ma su queste premesse corrette il documento inserisce due luoghi comuni che abbiamo sentito tante volte e che sentiremo ancora, ma che sono autentiche “bullshit” e che fanno deragliare il convoglio. Il primo è che: “la crisi di competitività del sistema produttivo italiano riguarda in particolare il settore industriale”. Falso! Tutte le classifiche mondiali della competitività che, da parecchi anni vedono scivolare l’Italia sempre più in basso, se analizzate nelle loro componenti, indicano nel deficit della finanza pubblica (cioè nel disordine con il quale il governo tiene la sua casa) e nelle inefficienze burocratiche le cause principali della cadente competitività italiana. La classifica più recente (divulgata il 27 settembre) è quella del World Economic Forum, che fornisce il seguente quadro: l’Italia risulta 122esima su 127 paesi per le inefficiente burocratiche e 121esima su 127 paesi per la situazione fiscale.
Gli estensori del rapporto ritengono che la grave situazione in cui versano le finanze pubbliche italiane sia la conseguenza di problemi istituzionali più profondi evidenziati dai pessimi risultati di variabili come l’efficienza della spesa pubblica, l’onere della regolamentazione e, più in generale, la qualità delle istituzioni del settore pubblico (e dunque aggiungo io: non della sola evasione come la demagogia dominante ci vuol far credere). Le debolezze italiane – proseguono gli estensori – sono parzialmente compensate da alcuni fattori quali un buon livello di preparazione tecnologica e la modernità delle imprese del settore privato. Ed allora? Perché il governo non dirige i suoi cannoni verso gli obiettivi reali, perché non concentra le sue deboli forze su queste problematiche che dipendono da lui direttamente, invece che pretendere, velleitariamente, di fare il direttore d’orchestra di tutto?
 
Il secondo luogo comune è che la relativa debolezza dell’industria italiana dipende dal fatto che le dimensioni aziendali siano troppo piccole e frazionate e, altri aggiungono, con troppe imprese familiari. Fulvio Coltorti responsabile di R &S, l’ufficio studi di Mediobanca e, senza dubbio, il miglior analista di bilanci aziendali d’Italia ed uno dei migliori europei ha, recentemente, pubblicato una interessantissima analisi sulle multinazionali europee.
Nelle conclusioni egli respinge il luogo comune, pur così frequente, che l’Italia ha così poche multinazionali, perché ha tante imprese frazionate e tante imprese familiari. L’Italia ha poche multinazionali di significative dimensioni perché quelle che avevamo (come la Fiat che era la numero uno in Europa), l’Olivetti (che è stata una grande realtà mondiale) la chimica italiana che prima della guerra chimica aveva, soprattutto in certi settori, una eccellente posizione mondiale; la Farmitalia che era in mezzo mondo; il Gruppo Ferruzzi e via dicendo le abbiamo massacrate. Queste imprese sono cadute e, purtroppo, tante sono sparite non perché gli italiani abbiano la vocazione solo per le imprese familiari e per quelle frammentate, ma perché sono state massacrate da manager, da azionisti, da sindacati inetti e irresponsabili.

La verità è che gli Adriano Olivetti,
i Valletta, i Mattei fanno le grandi multinazionali in Italia. Altri le distruggono non perché ci sono le imprese minori e familiari, ma perché sono pessimi manager e pessimi imprenditori. In Germania, come da noi, ci sono tante imprese familiari e tante piccole imprese, ma al management tedesco non è stato permesso di massacrare le loro eccellenti grandi imprese. E noi oggi ringraziamo il cielo che ci si siano tante imprese minori e tante imprese familiari in buona salute, e facciamo in modo che crescano, e speriamo che ritornino i Valletta, gli Adriano Olivetti, i Mattei.
Ma, siccome siamo piccoli e un po’ ignoranti sarà il Ministero a dirci dove andare, come crescere, che cosa è innovazione e cosa non lo è. Dovremo fare i nostri bei progetti di innovazione industriale, riportarli ad un “asse portante” rappresentato da un raccordo inedito tra il ministro dello Sviluppo Economico, il ministro dell’Università e la Ricerca e il ministro della Pubblica amministrazione, raccordo che sarà presente in ogni passaggio chiave in ogni Progetto ed alla fine potremo anche “accedere” (come si dice) a dei contributi finanziari attraverso un nuovo mastodontico Fondo per la competitività ed un nuovo Fondo per la finanza d’impresa. E le banche d’affari e le banche universali e il mercato internazionale del venture capital e i professionisti della materia? Si mettano in fila e se avranno un buon accreditamento chissà che non possano agire come consulenti dei megafondi ministeriali. Questo, semplificando, è il disegno “Industria 2015”.

Credo che questo breve assaggio
sia sufficiente per chiunque abbia un po’ di esperienza e di buon senso, per capire tutto l’orrore di questo provvedimento e soprattutto della cultura sottostante che, peraltro, si salda perfettamente con quella che ha ispirato la finanziaria. Non posso però non citare un’autentica perla; le imprese (con più di 200 dipendenti) che hanno dei primi segnali di crisi economico-finanziaria potranno chiedere un intervento preventivo al Ministero dello sviluppo economico che attiverà un meccanismo di prevenzione “e, a questo scopo si avvarrà di una struttura operativa che agirà in coordinamento con il Ministero del lavoro e con le Camere di Commercio”. Oh, gran bontà dei cavalieri antiqui!

Sempre per non essere accusato
di partito preso farò totalmente mie le parole che Nicola Rossi, valente economista organico ai DS e, credo, parlamentare sotto la stessa bandiera, dedica al progetto in un articolo dal titolo “Velleità di un progetto” :
Chi scrive tende a pensare che l’innovazione nasca dove vuole nascere e che sia malriposta la speranza che in questo o in quell’ufficio ministeriale si possa stabilire un anticipo dove e come essa debba manifestarsi (dal momento che tutto ciò che si può fare è creare le condizioni generali perché si manifesti ed accompagnarla una volta che si sia manifestata)…. Valuto con preoccupazione la evidente farraginosità e la allarmante discrezionalità delle procedure decisionali, la concreata applicabilità al tessuto industriale italiano e, in particolare, la sconfinata fiducia nella lungimiranza della “mano visibile” dell’operatore pubblico. Un operatore pubblico che dovrebbe saper individuare le aree strategiche di intervento, coinvolgere imprese ed enti di ricerca, selezionare gli specifici progetti di innovazione e coordinare l’attuazione.
 Giunti al termine dell’articolato, si è rivelato però difficile non domandarsi se ed in che misura “Industria 2015” potrà mai rivelarsi nulla più di una aggiornata modalità di ripartizione delle risorse pubbliche, poco o per nulla capace di incidere sulla distanza fra l’industria italiana ed i suoi concorrenti sui mercati mondiali. E’ infatti evidente che il disegno straordinariamente ambizioso contenuto in “Industria 2015” richiede – per avere qualche chance di successo – che la pubblica amministrazione e il sistema pubblico della ricerca (in primis, il sistema universitario) siano all’altezza della sfida. Che la prima sia efficiente, in grado di valutare e di scegliere e, conseguentemente, di assumere responsabilità – di premiare e punire innanzitutto se stessa – e che il secondo sia autonomo, aperto e meritocratico, senza eccezioni di sorta. Ma non è questa la realtà odierna tanto della prima quanto del secondo. E – con tutta la buona volontà – non sembra questo il futuro prossimo, sia per la prima che per il secondo, stando almeno agli atti e alle intenzioni dei ministri competenti in questi primi mesi di Governo.

Ma, qualcuno potrebbe dire
, perché te la prendi tanto? Sarà la solita elargizione di denaro destinata ai più inetti dalla quale sarà sufficiente chiamarsi fuori, per non essere turbati. Ed invece dobbiamo reagire per tempo per almeno quattro ragioni:
  1. perché è proprio il moltiplicarsi di questa roba che fa si che non si trovino mai i fondi per ridurre la spesa pubblica e le tasse (ma perché per queste robe i fondi si trovano sempre?);
  2. perché pensare di giocare la capacità competitiva e innovativa dell’industria italiana soli in termini di finanza e per di più di finanza gestita dai ministeri è più che una sciocchezza, un pericolo;
  3. perché questi strumenti sono la sostanza di una politica perversa che si riassume in poche parole: prima, con le imposte ordinarie e con gli altri strumenti ordinari, vi massacriamo, poi se farete i buoni e farete ciò che diciamo noi, accompagnati dai consulenti che vi diremo noi, vi compenseremo con un po’ di soldi.
  4. Questa politica corruttrice è quella in atto da tanto tempo nel Mezzogiorno ed ha umiliato e diseducato gli spiriti imprenditoriali e professionali di questa parte d’Italia (non a caso le uniche voci dal mondo imprenditoriale che mi è capitato di leggere a favore sia della finanziaria che di questo “Industria 2015” vengono dal Mezzogiorno). Ma noi, con tutto il rispetto e l’affetto per il Mezzogiorno non possiamo permettere che tutta l’Italia diventi Mezzogiorno.
Allora, dobbiamo arrenderci e lasciarci demoralizzare. Mai! Intanto speriamo che in Parlamento si rimedi alle pecche più gravi. Ma, poi, dobbiamo continuare la strada positiva intrapresa dall’industria italiana, fiduciosi nella sua capacità continua di innovare, nei settori tradizionali e in quelli nuovi, senza attendere i decreti ministeriali e senza farci corrompere da questa politica dirigistica, statalistica, assistenziale e velleitaria.
Sul piano fiscale dobbiamo metterci il cuore in pace. Siamo destinati ad operare in un regime di alta fiscalità destinata a crescere più che a diminuire e del quale si potrà ottenere qualche attenuazione solo, per chi può, attraverso qualche delocalizzazione. Acquisito che l’IRAP sarà sempre tra noi o meglio sempre sopra di noi fino alle fine dei secoli vi è solo un piccolo spiraglio che vale la pena di citare. L’ISAE, istituto di studi e analisi economica, che è organo di consulenza del governo ha emesso il suo quarto rapporto su: “Priorità nazionali, dimensioni aziendali, competitività, regolamentazione”. Nel capitolo: Fiscalità d’Impresa e incentivi alla crescita dimensionale, propone uno sconto dell’IRAP legato ad una serie di dati che testimonino una crescita dimensionale dell’impresa. Mi sembra uno spunto interessante.
Sul piano più generale dobbiamo continuare a chiedere l’impegno del governo sui temi sui quali può fare qualcosa di utile. Mi sembra che i dieci punti che sviluppai lo scorso anno siano ancora validi e può essere interessante ricordarli e verificare come si è evoluta la situazione da allora.

1.  Diminuire il costo del governo e della politica

Situazione peggiorata

2. Tenere a posto la propria finanza e ridurre spese, imposte e tasse

Situazione peggiorata

3.  Liberalizzare i servizi

Si sono fatte delle prove d’orchestra

4. Sviluppare una politica energetica che renda il Paese meno esposto ai rischi in questo settore fondamentale

Nulla di fatto

5. Trovare le strade difficili ma indispensabili per ridurre il divario tra compensi netti dei dipendenti e costo del lavoro

Qui qualcosa si è fatto, ma con mille se e mille ma e la situazione non è ancora chiara. Il provvedimento non è un beneficio (come impropriamente si continua a dire), ma la diminuzione di un onere che opprime gravemente il nostro sistema. Perciò deve essere generale e non condizionato o diversificato. Perciò è preoccupante tutto il parlare che si fa di differenziare l’intervento, territorialmente o per settori, o tra chi è a posto con le tasse e chi non lo è (ma cosa vuol dire essere a posto con le tasse? E se uno ha ricevuto uno dei soliti accertamenti cervellotici contro i quali ha ricorso è a posto o non è a posto? E chi può essere a posto se la Finanza che viene nelle aziende è obbligata a trovare sempre e comunque qualche cosa fuori posto?).

6. Bloccare e invertire tutte quelle riforme scolastiche che stanno svuotando di significato la formazione tecnica professionale

Nulla di fatto

7. Non ostacolare il processo di internazionalizzazione delle nostre medie imprese

Non colgo nuovi ostacoli a ciò, ma il decreto “Industria 2015” è, anche sotto questo profilo, minaccioso.

8. Sviluppare linee chiare di politica economica che possano essere punto di riferimento sicuro, affidabile e relativamente stabile per le imprese

Situazione peggiorata

9. Stimolare le piccole imprese verso i distretti di nuova generazione

Nulla di fatto, perché non colloco in questa direzione il fumoso concetto di reti incluso in “Industria 2015”

10. Tenere alto il morale e il nome della ditta

Tutto quello che si poteva fare per abbassare il morale e il nome della ditta è stato fatto.

 

Per fortuna noi siamo coriacei e resistenti alle intemperie e, in questo momento, vogliamo essere noi a tenere alto il morale e il nome della ditta, nonostante tutto.

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