GIANCARLO FORNARI. L’INNOCENTE IL GUERRIERO IL MERCANTE. LO PSICODRAMMA DELLA COMUNICAZIONE POLITICA

articolo

INTRODUZIONE

Questo
libro può essere considerato una specie di «antologia ragionata» della
comunicazione politica nel periodo che va da metà agosto del 2005 a
metà febbraio del 2006. Un instant book in cui abbiamo raccolto le più
significative, almeno dal nostro punto di vista, tra le innumerevoli
esternazioni della nostra classe politica in questi sei mesi, cercando
di verificare il loro senso, spesso nascosto, e di inquadrarle in uno
schema che avesse un minimo di significato.
Si tratta, come
sappiamo, di uno dei periodi più conflittuali della nostra recente
storia politica, che si apre poco dopo la pubblicazione delle prime
intercettazioni telefoniche dei protagonisti della scalata alla Rcs,
vede la caduta di un ministro (il secondo) ad opera del governatore
della banca centrale e poi la caduta del governatore ad opera della
magistratura, il coinvolgimento in alcune controverse vicende
finanziarie di diversi personaggi del centrodestra ma anche di
un’importante componente del centrosinistra con l’inedito spettacolo di
un premier – storicamente nemico dei magistrati che
lo perseguitano
che va spontaneamente a comunicare agli stessi magistrati fatti che lui
per primo asserisce «penalmente non rilevanti», e via in crescendo fino
agli ultimi rissosi sviluppi di questa interminabile campagna.
Della
classe politica abbiamo utilizzato nel libro un concetto allargato,
includendovi anche soggetti che non appartengono in senso stretto al
suo mondo ma che con questo si incrociano, cercando di condizionarne il
potere o di utilizzarlo. Abbiamo quindi tenuto conto, quando era il
caso, delle esternazioni dei protagonisti dei «salotti» dell’economia e
della finanza, sia quelli in grisaglia (i furbi) che quelli in
canottiera (i furbetti). Come pure degli interventi sempre più
frequenti delle gerarchie vaticane, che ormai tendono a «dettare la
linea» alla politica attribuendosi il potere di stabilire non solo ciò
che è morale ma perfino ciò che è legittimo in base alla «nostra»
costituzione ed esercitando questo potere su tutto ciò che fa parte
della nostra vita politica e civile, dalle intercettazioni telefoniche
alla devolution (l’unica cosa su cui non hanno ancora dato indicazioni
– ma possiamo sbagliare, potrebbero esserci contatti sotterranei – è la
formazione della Nazionale).
Accanto ad alcuni concetti non diremo
nuovi ma quanto meno poco usati nello studio della comunicazione
politica e dei suoi linguaggi (come gli archetipi intesi come paradigmi
delle identità politiche o la distinzione tra comunicazione esterna ed
interna, con particolare attenzione per quest’ultima) abbiamo
utilizzato, semplificandoli, concetti trattati in modo approfondito
negli studi degli specialisti di queste materie citati nelle note, ai
quali rimandiamo.

Un sentito ringraziamento va a
coloro che hanno letto il dattiloscritto e hanno fatto utili
osservazioni: Corrado Chiominto, Luigi Cugliandro, Riccardo Gualdo,
Paolo Leon, Massimo Romano, Marco Vitale, e poi M. Rita Canzonieri,
Raffaele Carcano, Marcella Marini, Stefania Petrucci, Stefano Silvio
Rosa, Giampietro Sestini. Con la rituale avvertenza che è solo
dell’autore la responsabilità degli eventuali errori e delle opinioni
espresse.
 

CAP. I – COME E’ CAMBIATO – IN PEGGIO – IL LINGUAGGIO DEI POLITICI

Una politica mediatizzata

Normalmente
il cittadino non ha un buon rapporto con la politica. A meno che non
faccia parte delle minoranze più impegnate non se ne interessa, non la
capisce. La colpa non è del cittadino ma della politica, che usa
termini ostici, lancia messaggi che lui non riesce a decodificare. Non
gli è chiaro come funzioni l’attacco a tre punte, non si appassiona
all’idea che il Polo metta in campo a sorpresa una quarta punta finora
nascosta a centro campo. Cambia canale se sente parlare di
discontinuità.
Nei suoi momenti peggiori la comunicazione politica
appare come una messinscena rumorosa e poco comprensibile, una
parafrasi di quella definizione che Macbeth dà della vita sul punto di
morire: una storia raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore
e che non significa nulla. O, per scegliere un riferimento più moderno,
una puntata della trasmissione di Biscardi (non a caso molto
frequentata dai politici) dove si discute due ore di seguito gridandosi
addosso e facendo del tutto per non farsi capire.
La differenza è
che mentre lo spettatore del programma televisivo può difendersi
spegnendo l’apparecchio o cambiando canale, il cittadino alle prese con
il sistema politico non può chiudere la comunicazione e mettersi a fare
altro, come andare a mangiare una pizza o portare a spasso il cane. O
meglio, lo può fare e anzi lo fa normalmente ma la trasmissione
continua sulle sue spalle e diversamente dal Processo del Lunedì, tutto
sommato relativamente innocuo, può provocare effetti collaterali enormi
nella sua vita – come una guerra mascherata da missione di pace o un
aumento delle tasse mascherato da diminuzione.
Anche se volesse,
del resto, il cittadino troverebbe quasi impossibile intervenire in
diretta nella trasmissione e farsi sentire dal mondo politico. Uno dei
limiti più importanti della comunicazione politica è infatti quello di
essere sempre, o quasi, a senso unico. Diversamente dalla comunicazione
interpersonale, in cui la regola è lo scambio e la comunicazione
unilaterale è l’eccezione, qui l’unidirezionalità è la regola, che
tollera pochissime eccezioni.
Non si tratta di una novità. Da che
mondo è mondo chi è a capo di una comunità parla e gli altri ascoltano.
Parla il capo della tribù dei cavernicoli indicando con la clava il
sentiero che porterà al terreno di caccia più fruttuoso. Il re solleva
lo scettro e parla con le leggi – a volte usando un certo sadismo, come
il tiranno di Siracusa Dionisio che appendeva le tavole della legge ai
muri più alti della città in modo che i cittadini avessero difficoltà a
leggerle. Poteva così divertirsi a punirli, quando ne aveva voglia.
Vedremo più avanti qualche applicazione moderna di questo simpatico
modo di governare.
Intanto vogliamo sottolineare che anche il
cittadino che vive in un sistema democratico si scopre impotente in una
situazione in cui la comunicazione politica – ormai scomparsi quasi
completamente i canali tradizionali di confronto come la sezione di
partito, l’assemblea, il comizio – è sempre più affidata ai mezzi di
comunicazione di massa, in particolare la televisione. Mezzi che per
loro natura consentono solo una comunicazione a senso unico, in cui si
esprime al massimo il potere di chi è in condizione di utilizzarli e
che attraverso essi può accrescerlo ulteriormente. Grazie al loro modo
di funzionare i mass-media creano uno steccato praticamente
invalicabile tra chi ha il potere di trasmettere e chi ha solo il
diritto di ascoltare, leggere, guardare.
E per conseguenza
altrettanto unilaterale, asimmetrica, autoritaria, è la comunicazione
politica. Il microfono, la telecamera, questi Apriti Sesamo delle
nostre società, sono strettamente custoditi nelle mani di pochi,
difficilmente disposti a cederli. Inevitabilmente il rapporto tra chi
ha il potere mediatico e chi non lo ha si riduce a una sopraffazione; a
sua volta il confronto tra i partiti si trasforma in uno scontro di
parole e di immagini, in cui vince chi sa usare meglio le parole e
possiede l’immagine migliore.
Non a caso in America, il paese che
ha creato quel modello di politica-spettacolo che da noi si sta
cercando di importare, ormai si distingue tra “legittimità elettiva”
(derivante dalla credibilità dei programmi o dalla pratica del buon
governo) e “legittimità catodica” (consistente nell’abilità di esperto
comunicatore del proprio prodotto politico, promosso con tecniche
assimilabili a quelle pubblicitarie) .
Vediamo riflessa questa
transizione sempre più forte dalla politica-politica alla
politica-spettacolo nelle parole di Berlusconi, che irride il suo
avversario perché non ha la battuta pronta ed è lento nell’eloquio,
come se questo dimostrasse la sua incapacità di governare.
Quelli
che campeggiano nel confronto politico sono ormai due poteri, il potere
delle parole e quello dei media. Il successo è di chi (1) sa usare
meglio le parole della persuasione e (2) grazie al maggior controllo
dei media ha più occasioni per esporle. Il confronto politico non va al
partito che ha le idee e gli uomini migliori ma al partito (potremmo
dire “alla ditta”) che può disporre di più spazi per le sue promozioni
e affidarle ai promotori più bravi. Un sistema di selezione dei leader
in cui sarebbero risultati vincitori Mussolini su Cavour, Blair su
Churchill, Bush su Roosevelt. Personaggi del tutto grigi e privi di
ogni fascino comunicazionale e che pure sono stati dei grandi uomini di
stato come Adenauer e Truman in un sistema politico sempre più
condizionato dalla presenza mediatica troverebbero molte difficoltà ad
affermarsi.

Potere mediatico vs. potere della realtà
Il
tema centrale della comunicazione politica, il rapporto tra parole e
potere (capire cosa si nasconda dietro le parole della politica e come
si eserciti sui cittadini il loro potere) è emerso in modo chiaro dalla
campagna elettorale del 2006 tra i partiti italiani. Campagna che ha
costretto a interrogarci su una questione cruciale, e cioè stabilire se
le parole sono altro dalla politica o sono un tutt’uno con essa.
Dobbiamo credere che la politica si riduca al discorso, come molti
sostengono, o che sia qualcosa di più di un fatto mediatico – sia
costituita da “cose” oltre che da parole?
Ultimamente, sull’onda
della concezione mediatica della politica a cui prima abbiamo
accennato, non solo in America ma anche in Europa si sta affermando
l’idea che la politica si identifichi tout court con il suo linguaggio.
“E’ il linguaggio sugli eventi politici, piuttosto che gli eventi
stessi, ciò di cui il pubblico fa esperienza (attraverso i media)”.
“Per queste ragioni il linguaggio politico è la realtà politica”. A sua
volta il potere del linguaggio non sarebbe dovuto tanto alle parole
quanto alla loro “capacità di soddisfare bisogni mediante dei simboli
”.
Un gioco dunque tutto di specchi in cui la realtà non è quella
fattuale ma quella virtuale costruita dalla pressione mediatica e il
bisogno è creato, e insieme soddisfatto, dal discorso di un leader.
Come se si dicesse che il calcio non è quello “giocato” allo stadio ma
quello “parlato” nelle trasmissioni tv (e non a caso l’anno scorso un
noto critico televisivo ebbe a sparare in prima pagina sul Corriere
della Sera questo giudizio su una nuova trasmissione: “Domenica 28
agosto ore 18, inizia ufficialmente la bonolizzazione del calcio
italiano. A suo modo è una data storica, una svolta epocale”. La svolta
nella storia del calcio non si verificherebbe dunque perché viene
giocato bene o male, in difesa o all’attacco, alla brasiliana o
“all’italiana”, ma perché un presentatore televisivo nella sua
trasmissione lo racconta in un modo invece che in un altro. Lo bonolizza).
Ed
è proprio partendo da concezioni di questo tipo che è nata nel gennaio
2006 la pretesa del capo del governo di allontanare l’entrata in vigore
dell’aborrita par condicio per approfittare quindici giorni di più del
vantaggio ricavato dal suo predominio mediatico.
Secondo questa
pretesa gli italiani non dovevano essere lasciati liberi di decidere
come votare alle elezioni di aprile 2006 per come “essi” hanno vissuto
questi cinque anni, nel bene e nel male, ma per come “lui” glieli
racconta. Non dovevano decidere di votare o non votare e di votare in
un certo modo invece che in un altro in base alla loro esperienza delle
cose ma in base all’interpretazione data dal premier, alla
rappresentazione da lui offerta attraverso la moltiplicazione
quotidiana delle sue presenze mediatiche .
A questa concezione
puramente discorsiva della politica si contrappongono – spesso però
inutilmente – concezioni “nobili” come quella di Hannah Arendt, che ci
tiene a distinguere in modo netto le parole dall’azione spiegandoci che
“il potere è realizzato dove parole e azioni si sostengono a vicenda,
dove le parole non sono vuote e i gesti non sono brutali, dove le
parole non sono usate per nascondere le intenzioni ma per rivelare
realtà, e i gesti non sono usati per violare e distruggere ma per
stabilire relazioni e creare nuove realtà ”
E in effetti se si
riesce ad uscire dall’abbraccio ipnotico dei media è possibile rendersi
conto che la politica nella sua concretezza è qualcosa di diverso dalla
politica raccontata da loro, non meno di quanto il calcio «giocato» sia
diverso da quello «parlato». E non è difficile capire che la politica è
fatta sì di parole ma soprattutto di scelte da cui dipendono il nostro
benessere o la nostra stessa esistenza come la protezione sociale o il
darwinismo del mercato, l’occupazione o la disoccupazione, la guerra o
la pace fino a arrivare al campo di sterminio per gli ebrei e al gulag
per gli oppositori.
E tuttavia non è sempre facile per la realtà
della politica riuscire a squarciare il velo delle parole e arrivare
alla gente superando le manipolazioni della propaganda e lo strapotere
dei media. Perché questo accada è necessario che la realtà sia
decisamente più forte della rappresentazione, che tra le due ci sia una
forbice troppo larga perché le persone possano fare a meno di
avvedersene. Allora la realtà prende il sopravvento così come ha fatto
il calcio quando ha dimostrato – fallita la grande rappresentazione che
secondo certa critica televisiva avrebbe dovuto segnarne la “svolta
storica” – di essere in grado di decidere da solo se e come svoltare.
 
L’imbarbarimento
Anche
grazie a queste esasperazioni mediatiche sembra di assistere – in
questa troppo lunga campagna elettorale, iniziata nella primavera 2005
con le regionali e destinata a concludersi solo a giugno 2006 con il
referendum istituzionale – alla lotta finale tra la Compagnia degli
Anelli e l’oscuro Signore di Maldoror, tra l’Impero Ottomano e la
Cristianità. Per trovare dei precedenti all’asprezza di questo scontro
bisogna tornare indietro di oltre mezzo secolo fino alle elezioni del
‘48 nelle quali erano contrapposti il Fronte Popolare e la Democrazia
cristiana. Ma quella allora in gioco era una vera e propria scelta di
campo tra due universi inconciliabili, le democrazie occidentali e il
comunismo sovietico, dalla quale sarebbero forse dipesi i destini
dell’Italia per i successivi vent’anni e – chissà – gli stessi destini
del mondo.
 
Quella che stiamo vivendo nei primi mesi del
2006 e a cui volenti o nolenti stiamo partecipando è una guerra interna
in un Paese ormai ai confini dell’Impero e del quale nel mondo quasi
nessuno si occupa. Una guerra tra due schieramenti che non sono certo
diversi l’uno dall’altro come potevano esserlo il vecchio Pci e la
vecchia Democrazia cristiana e dal cui esito, data la catastrofica
situazione della finanza pubblica ancora peggiorata negli ultimi anni,
anche nel caso di cambio di governo non potranno derivare almeno nel
breve periodo grandi cambiamenti – salvo rivedere alcune pseudoriforme,
allontanare alcuni impresentabili e tagliare i tentacoli di un
conflitto di interessi che in questi anni ha condizionato la maggior
parte delle scelte di governo.
Una guerra, oltretutto, che ha come
posta un potere centrale estremamente debole. Paradossalmente, mai come
in questo momento in cui lo scontro per il potere è così violento il
potere per il quale ci si scontra è stato tanto limitato. Quella che
abita nei palazzi romani del potere è infatti una classe politica la
cui direzione di marcia e le cui potenzialità sono sempre più
condizionate da vincoli provenienti da tutte le direzioni.
Dieci
volte meno potente di quella degli anni Settanta, che possedeva
l’industria di Stato e risolveva i problemi delle imprese con la leva
del cambio, quelli della società con la manovra del bilancio.
Schiacciata dall’Unione europea dall’alto e dalle istituzioni locali
dal basso. Condizionata da poteri esterni sempre più forti e invadenti
come i media, i mercati finanziari e le loro agenzie di rating, il
Vaticano. Marcata stretta da una magistratura che superata quella
specie di tregua non dichiarata che aveva fatto seguito alla fine di
Mani Pulite sta dimostrando di non volerle perdonare le purtroppo
ancora frequenti deviazioni operando – nello scandalo finanziario
Bpi/Antonveneta/Unipol/Bnl – con minore protago-nismo rispetto al
periodo più acceso del suo incontro-scontro con la politica e, forse,
con maggiore concretezza .
Dalla strategia dell’attenzione, che
aveva informato i rapporti tra le forze politiche nei periodi cruciali
del centrosinistra, nella campagna elettorale 2006 è andata in scena la
strategia dell’aggressione. E il linguaggio usato è ovviamente
funzionale a questo tipo di rapporti e ne riflette gli sviluppi.
Eccelle il premier nel tracciare scenari trash: “Il Pci usava i soldi
insanguinati di Mosca” (21 gennaio). Il 23 dicembre 2005, nella
tradizionale conferenza stampa di fine anno aggredisce una malcapitata
giornalista dell’Unità: dovreste vergognarvi della vostra storia, siete
complici di cento milioni di omicidi. Provano inutilmente a stare alla
sua altezza Prodi: “Le sue bugie hanno le gambe corte e non hanno
neanche la possibilità di mettere i rialzi nei tacchi” e Fassino: “il
premier è patetico”. Berlusconi: “Non parlo di stupidaggini, la bassa
politica fatela fare ai bassi” (13 gennaio ‘06).

Il rispecchiamento
I
più attenti studiosi della comunicazione politica già da tempo avevano
individuato nel passaggio dalla prima alla seconda repubblica il
momento di transizione da un linguaggio alto e spesso involuto a forme
linguistiche più dirette e vicine al linguaggio popolare. Come
suggerisce Silverio Novelli, in questo passaggio forse non cambia molto
il modo di “fare” politica ma sicuramente cambia quello di comunicarla
. Raffaele Simone ha notato – con riferimento all’eloquio di Berlusconi
– il “vocabolario politico intenzionalmente basso, semplificatorio”, la
stranezza della “lingua in pericolo” che nasconde sgrammaticature,
sconnessioni, collegamenti semantici dubbi. Giuseppe Antonelli  ha
descritto il cambiamento che si registra in questi anni nella
comunicazione politica come effetto del passaggio dal “paradigma della
superiorità” al “paradigma del rispecchiamento” (da una classe politica
che ci tiene a mantenersi in qualche modo “distante” a una classe
politica che “si rispecchia” nelle classi popolari), mentre Riccardo
Gualdo e Maria Vittoria Dell’Anna hanno messo in evidenza 
l’abitudine “ai gesti plateali e alle risse nei luoghi di dibattito
istituzionale, al progressivo inasprimento delle polemiche e delle
aggressioni personali” e l’uso “sempre più normale delle metafore
vivaci e del sarcasmo di grana grossa”.
Tuttavia l’imbarbarimento
del linguaggio politico a partire dalla metà del 2005 supera ogni
precedente limite. E se rispecchiamento c’è, si verifica nei confronti
degli strati meno civilizzati della popolazione. Quasi che la classe
politica, abbandonata la tendenza da prima Repubblica a coltivare il
lessico degli strati più acculturati della popolazione dei quali in
qualche modo faceva parte, stia passando da un estremo all’altro
assumendo, alla fine, i moduli espressivi delle tifoserie degli stadi,
con le quali peraltro non a caso la domenica ama spesso confondersi.
Oltre
alle conferenze stampa, le interviste, i comizi e le stesse sedi
istituzionali, teatro delle esibizioni di questa classe politica “in
libera uscita” sono le trasmissioni politiche ma anche quelle sportive
o di intrattenimento, dove non disdegna di affrontare perfino il
rischio della torta in faccia (5/1/2006, on.le Gasparri; 20/1/2006
on.le Di Pietro, che non sembra gradire molto anche se si sforza di
sorridere. Certo chi avesse osato gettargli una torta in faccia da
magistrato difficilmente se la sarebbe passata liscia). Perfino un
piemontese austero come Fassino è costretto ad andare a “C’è posta per
te” a farsi abbracciare dalla tata (e Maria Laura Rodotà sul Corriere
della Sera gli dà i consigli come Clint Eastwood a Hillary Swank prima
del match: non temere le figuracce ma non ballare con la De Filippi).

Dal
livello verbale, tipico delle sedi istituzionali, la comunicazione
politica scende sempre più spesso al livello non verbale – forzatamente
elementare, frequentemente rozzo. Con la discussione sulla legge
elettorale (ma già episodi analoghi c’erano stati molto prima, basta
ricordare il cappio esibito dai leghisti al tempo di tangentopoli) si
può dire che la curva sud irrompe in Parlamento, gli striscioni
inalberati da entrambi gli schieramenti trasformano la Camera in uno
stadio. Mentre i deputati di An, al momento di votare un po’ obtorto
collo la legge di “devolution” imposta dalla secessionista Lega
esibiscono nel taschino un fazzoletto tricolore che dovrebbe
testimoniare la loro persistente fedeltà nazionale.
Non si vuole
qui negare la validità in sé di questo tipo di comunicazione materiale
che in politica non manca di nobili precedenti – basta ricordare la
spada di Brenno lanciata sulla bilancia con cui si pesava il costo in
oro della resa dei Romani o la corona strappata da Napoleone dalle mani
del Papa nella Cattedrale di Nôtre Dame, gesti che parlano più di un
discorso.
Il guaio è che questo tipo di comunicazione da stadio
usata in Parlamento non esprime una posizione politica, e se la esprime
non è certo quella a cui pensano coloro che la utilizzano. L’esibizione
di striscioni alla Camera, lungi dal rendere più visibile
l’opposizione, comunica solo la sua impotenza. Se il ruolo della
minoranza si riduce ad agitare degli striscioni come fa il popolo della
curva, tutti capiscono che essa – esattamente come la curva – non
prende parte al gioco. Gli striscioni accentuano solo il ruolo di
“spettatori” dei gruppi politici che li esibiscono.

Il livello zero della comunicazione politica. Il gesto, l’insulto, la violenza
Ma
se questi tipi di esternazioni, discutibili come metodo, rimangono pur
sempre nell’ambito della dialettica politica, in altre occasioni la
comunicazione non-verbale si abbassa al livello di scambio di
gentilezze tra automobilisti. Il 25 ottobre 2005, mentre è in corso la
manifestazione di protesta degli studenti davanti a Montecitorio dove
si sta votando la riforma dell’Università, l’onorevole di An Daniela
Santanchè, uscita dal portone principale insieme all’on.le La Russa,
risponde ai cori offensivi degli studenti alzando il braccio e
mostrando loro il dito medio alzato, sorridendo graziosamente (altre
cronache, non confermate, aggiungono che a sua volta l’on.le La Russa
avrebbe risposto alle provocazioni degli studenti toccandosi
vistosamente i testicoli).
Il gesto “dell’urologo” del resto è
oramai divenuto abituale nella maggioranza ad opera del suo stesso
leader, che l’ha usato più volte nei comizi per replicare icasticamente
ai disturbatori; e c’è addirittura un manifesto di Forza Italia che
presenta un Berlusconi ghignante con il dito medio alzato nel quale –
per nascondere e sottolineare insieme la volgarità – è infilata una
bandierina del partito, mentre il braccio sinistro stringe il fianco di
una ragazzotta che esibisce curve prorompenti e un sorriso a 32 denti
ancora più vistoso. In alto, per i militanti che non avessero capito,
la scritta “IN MEDIO…STAT VIRTUS”, brillante allusione metaforica sia
alla funzione euristica del dito sia alla collocazione politica
“mediana” (e quindi vincente) del partito del premier. Più in basso il
pay-off  “GENTE ALLEGRA DIO L’AIUTA”.
All’allegria di questo
linguaggio dei segni, che sicuramente riuscirà simpatico al sociologo
Ricolfi che trova antipatica la sinistra, si mescola spesso l’insulto
rabbioso, risorsa abituale dei leghisti di lotta e di governo, a volte
vivacizzato dall’aggressione fisica.
Il 4 luglio 2005, fischi e
insulti degli eurodeputati Speroni, Borghezio e Salvini a Ciampi ospite
al Parlamento europeo, costretto a giustificarsi davanti al Presidente
dell’assemblea Joseph Borrel e poi al telefono con il Presidente della
UE Barroso (non è vero che l’Italia vuole uscire dall’euro, c’è solo
malcontento per il carovita determinatosi al momento del passaggio).
L’ultimo
giorno dello stesso mese (“una giornata da ricordare questo 31 luglio”,
a detta degli stessi deputati), attacco “squadrista” della Lega, la
deputata della maggioranza Chiara Moroni in lacrime nel Transatlantico
di Montecitorio (“Ho subito un’aggressione verbale e quasi fisica
dell’onorevole Cè, con insulti talmente volgari…tutto quello che si
può dire ad una donna giovane e ho pensato: adesso mi ammazza". Insulti
“talmente grezzi, rozzi, inappropriati che è meglio non scriverli, per
non offendere il Parlamento”).
Parlamento che per la verità
possiede importanti tradizioni in questo campo, tant’è vero che il
dibattito nelle Camere è considerato “extraterritoriale” per quanto
riguarda la rilevanza penale dell’insulto, ma che per ammissione del
suo stesso Presidente è ormai teatro di un grave “imbarbarimento del
costume politico”.
Su un piano più discreto troviamo i maschi
annunci del pro-sindaco leghista di Treviso che emulando il Ministro
per gli Italiani all’estero tranquillizza i concittadini: “Nella mia
città i culattoni non passano” e le diplomatiche dichiarazioni del
ministro Calderoli: “L’otto dicembre saremo a Bruxelles per chiedere
l’abolizione della Costituzione europea. Sfrutteremo il ponte
dell’Immacolata per portare un po’ di religione a quei pedofili”.
Di
fronte a questi messaggi la sensazione è quella di un apparato
comunicativo che ormai procede come un treno privo di freni, e del
resto se la televisione anche di Stato offre esempi quotidiani di
comunicazione gratuitamente violenta e volgare (è del 24 gennaio la
notizia di una trasmissione sospesa per aver superato la soglia di
violenza ammessa abitualmente) è difficile pensare che la comunicazione
politica possa seguire la strada della correttezza .
Una prassi di
ricerca di volgarità che per altro verso sta cominciando ad essere
messa in discussione anche nel mondo dello spettacolo almeno a sentire
Elio delle “storie tese”, che ricorda di avere “sempre rivendicato
l’uso della parolaccia artistica. Ora, rispetto al nostro esordio,
passano cose impensabili vent’anni fa.” E un gruppo che vuole
distinguersi deve fare il percorso inverso: “la nuova frontiera è l’uso
dell’italiano corretto”.

Parole a rischio
Alla
volgarità si sostituisce a volte l’eccesso verbale, spesso
irresponsabile. Sembra che il mondo della politica – che pure dovrebbe
essere formato da persone attente e sperimentate – giochi con le parole
o con le immagini senza rendersi conto del potere dirompente che queste
possono avere. A febbraio 2006, l’esibizione televisiva di una
maglietta con le caricature anti-Maometto da parte del ministro
leghista Calderoli (poi costretto a dimettersi) scatena in Libia
tumulti repressi nel sangue.
In Francia, basta una frase
sconsiderata e violenta del ministro Sarkozy dopo alcuni giorni di
disordini nei ghetti di periferia – dobbiamo sradicare la feccia,
“éradiquer la racaille” – per trasformare quelle che fino ad allora
erano violenze isolate in un’autentica rivolta. La semantique guerriere
del ministro dell’interno – come la definisce il ministro delle pari
opportunità Azouz Begag – è agli occhi di tutti la principale
responsabile dell’aggravamento del conflitto.
All’indomani dell’11
settembre 2001 il premier Berlusconi – ispirato, con ogni probabilità,
dal pensiero “filosofico” del Presidente del Senato Pera – si lascia
andare a un commento sulla superiorità della nostra cultura rispetto a
quella mussulmana e sullo scontro di civiltà cui è oggi chiamato a
rispondere l’occidente, che fa il giro del mondo e preoccupa perfino la
Casa Bianca. Con il risultato che di lì a poco Berlusconi si troverà
costretto a ridimensionarla. Ma ormai il guasto è fatto.
A luglio
dell’anno successivo il Ministro dell’Interno Scajola definisce un
rompiballe, per usare un eufemismo, il povero Marco Biagi (assassinato,
come hanno poi accertato i giudici bolognesi, anche per colpa dello
Stato che gli aveva negato la scorta) ed è costretto, scoppiato lo
scandalo, a dare le dimissioni.
A luglio 2003 è la volta del
sottosegretario leghista Stefano Stefani, che in una lettera al
quotidiano La Padania si abbandona ad espressioni poco lusinghiere nei
confronti dei tedeschi, dipinti come invasori rumorosi delle nostre
spiagge “ubriachi di birra e tronfi di certezze”. Peccato che lo
Stefani sia vice-ministro al turismo e i tedeschi siano i primi
consumatori dell’offerta turistica dell’Adriatico. Dopo che Schroeder
per protesta fa sapere di avere annullato le previste vacanze in Italia
(“peggio per lui”, commenterà gentilmente Berlusconi) e dopo la
sollevazione degli inviperiti assessori al turismo dell’Emilia e della
Toscana e il pronunciamento di An, sempre sensibile ai rapporti con gli
alleati, il vivace Sottosegretario è costretto alle dimissioni.
Su
un piano meno traumatico possiamo ricordare la rinuncia alla
candidatura a sindaco di Milano per il centrosinistra cui si trovò
costretto Umberto Veronesi dopo le reazioni suscitate da un suo elogio,
invero un po’ sopra le righe, al ministro della salute Storace.
La
facilità a scelte espressive poco meditate non è prerogativa solo dei
politici. John Lennon nel ‘66 pronunciò la sfortunata frase “Siamo più
famosi di Gesù” suscitando le ire del Ku Klux Klan, che inchiodò i
dischi dei Beatles a una croce in fiamme; i concerti del complesso
furono fermati da contestazioni furibonde e i Beatles dopo di allora
rinunciarono ad esibirsi in tour.
Ben diverse possono essere però le
conseguenze quando le leggerezze semantiche appartengono, anziché a
esponenti del mondo dello spettacolo, a rappresentanti politici forniti
anche di cariche istituzionali. Così non è lo stesso se il grido di
raccolta alla guerra interculturale e alla difesa contro i rischi del
meticciato viene lanciato da una scrittrice free-lance come Fallaci o
dal Presidente del Senato. O se a insolentire un deputato tedesco
chiamandolo kapò è il Presidente del Consiglio.
Al di là di questi
casi limite è frequente la drammatizzazione di eventi che in politica
dovrebbero essere abbastanza usuali. Fa parte delle regole del gioco
che un sindaco venga “sfiduciato”, spesso con un colpo di mano, dalle
stesse forze politiche che l’avevano eletto. Ma quando succede – il 17
gennaio ‘06 – al sindaco di Cosenza Eva Catizone, già protagonista di
una contrastata storia con il locale segretario dei Ds, la sua reazione
è netta: “mi hanno stuprata politicamente”. Per Previti la sentenza che
lo condanna in primo grado è “disumana, un colpo di pistola,
un’esecuzione pianificata”. Mentre per Berlusconi le forze politiche
che sembrerebbero volersi staccare dalla maggioranza sono delle
“metastasi”. E i giudici, dai quali ha ricevuto molti fastidi, “sono
matti, non solo politicamente ma matti comunque. Per fare quel lavoro
devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche”.
Ultimamente (5 febbraio) si è registrata una variante: nella
magistratura “c’è del marcio”, “alcuni magistrati sarebbe bene mandarli
a Cuba, così si renderebbero conto com’è davvero il comunismo. Ma ahimé
temo farebbero solo turismo sessuale”.

I motivi del cambiamento
L’evoluzione-involuzione
del linguaggio della politica, che come abbiamo accennato ha avuto le
sue prime origini nell’epoca del passaggio dalla prima alla seconda
Repubblica, è stata determinata da diversi fattori, già debitamente
approfonditi dagli specialisti . Qui vogliamo richiamarne soprattutto
tre (un quarto lo vedremo più avanti).

I nuovi attori

Anzitutto
l’ingresso in campo – dopo lo tsunami tangentopoli – di due nuovi
competitori, la Lega e Forza Italia. La prima emanazione degli strati
popolari e produttivi del profondo Nord, la seconda radicata nel mondo
dello spettacolo e della comunicazione. Dai codici linguistici di
livello alto dei politici della Prima Repubblica si passa così a un
linguaggio più popolare o comunque più immediato ed espressivo, spesso
anche francamente e volutamente volgare. Basta ricordare le definizioni
che il leader della Lega dava di Berlusconi nel ‘95: “un suino – un
brutto mafioso che guadagna i soldi con l’eroina e la cocaina – un
cornuto – una febbre malarica”. Alla signora di Venezia che mette in
mostra il tricolore Bossi grida di “metterlo nel cesso”. Con la Lega
Nord l’osteria entra in politica portandosi dietro i suoi schemi
comunicativi. Nella maggior parte dei casi la sintassi dei leghisti
sembra affetta da un tasso alcolico che non passerebbe l’esame della
Polizia stradale.
Il fenomeno naturalmente non deriva solo da
rozzezza caratteriale ma anche da calcoli di convenienza. Una recente
analisi della comunicazione di alcuni movimenti populisti, tra cui la
stessa Lega, ha messo in luce varie strategie di attenzione mediatica
messe in atto soprattutto dai loro leader, tra le quali:
–  “inscenare manifestazioni spettacolari di dissenso o usare un linguaggio trasgressivo;
–  sfruttare la pubblicità gratuita dei media ottenuta nella copertura delle provocazioni”.
Quanto
ai media, “sono consapevoli di essere in qualche modo usati” ma stanno
al gioco perché tra loro e i movimenti “esiste una concordanza di
bisogni. I movimenti e i media si appoggiano gli uni agli altri”, con
scopi ovviamente diversi (Mazzoleni, op. cit.).
La Lega inaugura
una concezione “tribale” della politica, i suoi leader non si rivolgono
mai al mondo esterno e non si preoccupano delle sue eventuali reazioni,
comunicano solo con i propri adepti (non far caso alle “sparate” di
Bossi, dice Berlusconi a Fini per scusarlo, “lui parla ai suoi”).
 
I due poli
Il
secondo fattore è il passaggio al bipolarismo, che ha determinato un
sistema di rapporti tra maggioranza e opposizione basato
istituzionalmente sulla contrapposizione. I partiti dello schieramento
opposto non sono avversari con cui confrontarsi ed eventualmente
dialogare ma nemici da abbattere. Il linguaggio segue queste
trasformazioni del quadro politico, le parole – sempre più forti – sono
le munizioni con cui lo scontro permanente tra i due schieramenti si
alimenta e si esaspera. Il destino del paese qualora l’opposizione
dovesse diventare maggioranza è sempre prefigurato dalle forze di
governo come una catastrofe, mentre altrettanto catastrofico viene
presentato dall’opposizione il risultato delle iniziative del governo,
quali che esse siano (Prodi, intervistato a Roma il 24 ottobre 2005 dai
corrispondenti della stampa internazionale: “E’ meglio che vinca io
altrimenti l’Italia è finita”. Replica di Calderoli: “Una vittoria del
centrosinistra porterebbe all’ingovernabilità del Paese, ad un suo
rapido siluramento (?) e al venir meno della legalità”)
Il modello
che questo tipo di comunicazione sottintende (e che a sua volta
contribuisce a consolidare) è quello di una società divisa in due che
afferma i suoi valori solo in una logica di contrapposizione. Una
logica impersonata in modo esemplare dal leader di Forza Italia, il
quale, come spiegato dai suoi più attenti studiosi  e come vedremo
meglio più avanti, fonda sin dall’inizio la sua propaganda, e la sua
stessa filosofia politica e di vita, su uno schema binario, la
contrapposizione “azzurri/rossi”, “buoni/cattivi”, “noi/loro”.
 
Politica spettacolo / spettacolo politico
Il
terzo fattore di evoluzione-involuzione del linguaggio è l’interazione
sempre più stretta tra politica e spettacolo iniziata a suo tempo con
l’entrata in scena di “Forza Italia”, evocativa già nel nome di
archetipi patriottico/calcistici. Alla politica che prende a prestito
sempre più spesso non solo i protagonisti (con l’inserimento dei vari
Marrazzo, Carlucci, Gardini, Luxuria, Bongiorno, l’elenco è
interminabile) ma anche le forme espressive dello spettacolo televisivo
o calcistico (vedi ad esempio il già citato “attacco a tre punte” del
centrodestra, prospettato polemicamente anche da D’Alema come soluzione
dei problemi del centrosinistra: “possiamo giocare anche noi a tre
punte e vedremo chi prenderà più voti”) fa riscontro l’irruzione sempre
più forte dello spettacolo nella politica.
Quasi in singolare
sintonia con la convergenza realizzata dai media si registra la
convergenza di due mondi che prima erano (tenevano ad essere)
rigorosamente distanti. Assistiamo a due fenomeni, o meglio a uno
stesso fenomeno su due versanti: la spettacolarizzazione della politica
da un lato, la politicizzazione dello spettacolo dall’altro. Che ha
toccato il suo apice con le trasmissioni concesse “in appalto” a
Celentano, il quale dall’alto del suo trono mediatico ha messo sotto
giudizio i politici, tra ottobre e novembre 2005, dividendoli in “rock”
e “lenti” e obbligandoli a seguirlo con scrupolosa attenzione («mi sono
dovuto alzare un momento e ho perso il pezzo su cui state chiedendo il
mio parere» – si è scusato con i giornalisti il Presidente della Camera
Casini).
All’interno di questo quadro di spettacolarità si
collocano anche scelte di “estetica politica” privilegiate, ovviamente,
dal premier e dal suo schieramento. Si comunica quindi con i colori
(azzurro, con una valenza forte e insieme rassicurante; bianco, per il
messaggio di pulizia e candore che comunica ), con la scelta delle
persone possibilmente «belle ed eleganti» (Renato Brunetta non poteva
fare il ministro, fece capire il premier, perché troppo basso) che
devono formare «una squadra» da esibire. “Siete giovani, eleganti e ci
sono anche tante belle ragazze”, si complimenta con i giovani del
circolo di Dell’Utri convenuti a Sorrento il 12 novembre 2005 (e le
cronache registrano anche lo sfogo di un deputato forzista di S.
Antonio Abate: “ci hanno detto di non portare vecchi, non servivano”).
Al
di là delle esasperazioni c’è sicuramente qualcosa di valido nella cura
per l’estetica del premier, e certo se Che Guevara avesse avuto la
faccia di Buttiglione la sua immagine non starebbe sulle T-shirt dei
ragazzi di mezzo mondo. Ma non si può esagerare in questa direzione
perché se si fossero applicati sempre i criteri di Berlusconi molti dei
grandi personaggi politici che abbiamo citato all’inizio sarebbero
rimasti nell’anonimato.

Ma il politichese vive e lotta con noi
E molte volte quello che Guccini chiama il frastuono delle urla dei politici
cede il passo a un linguaggio cifrato (e qui l’eredità o per meglio
dire i vecchi vizi della prima repubblica sono ancora forti) quando si
tratta di inviare segnali tutti interni al mondo politico. Riprende
piede allora il frasario – difficile da decodificare per il grande
pubblico – degli addetti ai lavori che si confrontano e si scontrano
(molto spesso anche tra alleati o presunti tali) su questioni di
rapporti di potere, di schieramenti elettorali o di scelte di
leadership. Riprende piede anche la scelta di codici espressivi elitari
per non dire esoterici, particolarmente incongrua quando viene
praticata da settori politici che pretendono di dichiararsi vicini alle
masse. Vediamo ad esempio in che modo risponde Bertinotti al
giornalista del Sole 24 Ore che gli domanda cosa potrebbe imparare la
sinistra europea dall’esperienza di Lula in Brasile: “All’indomani
della sua vittoria, Lula disse: “Tutti i brasiliani avranno un piatto
in cui mangiare”. Questo è un elemento simbolico forte. Ebbene, senza
questo elemento simbolico la politica in Europa non si fa. Senza una
fusione tra la leadership di sinistra e il popolo che passa attraverso
un’assunzione del simbolico come elemento di guida del processo non si
va da nessuna parte. Neppure in Europa. Un patto fondato sulla
democrazia partecipata. E’ il contrario della personalizzazione della
politica, del maggioritario, della delega”.

Le manipolazioni
Su
un altro piano, più insidioso, dobbiamo fare i conti con la
manipolazione del linguaggio e la conseguente sparizione-alterazione
dei significati. Questa non è certamente una novità e neppure una
peculiarità italiana. Dovunque, come avvertiva a suo tempo Foucault,
cresce la separazione tra parole e cose. E attuale quanto mai suona
l’invocazione di Frege: non pretendiamo che tutto venga dimostrato con
chiarezza ma che almeno le parole che usiamo abbiano un significato,
questo sì.
Ma poiché il linguaggio è potere, questo tende a
modellare il significato delle parole. Un primo obiettivo di questa
manipolazione è mistificare la realtà, un secondo modificare i valori.

Il primo obiettivo

si realizza con la scelta delle parole. La terminologia di cui ci
serviamo, ricorda Chomsky , è carica di ideologia. ‹‹Qualunque termine,
se ha un senso, in genere avrà due significati: quello dato dai
dizionari e quello usato nella guerra ideologica. Per cui il termine
“terrorismo” indica sempre quello che fanno gli altri. Oppure prendiamo
il termine “difesa”. Non ho mai sentito uno stato ammettere che sta
compiendo un atto di aggressione. Sono sicuro che se avessimo documenti
del tempo di Gengis Khan, scopriremmo che anche lui faceva solo azioni
di “difesa”››. E se proprio non si può parlare di difesa si usano altri
termini. ‹‹Così, invece di intervento bellico in Vietnam, si parlava di
“coinvolgimento” o “contenimento” nel Vietnam››. Un concetto ribadito,
sempre con riferimento alla politica americana, da Arundhati Roy:
‹‹Quando dopo l’11 settembre ha annunciato gli attacchi aerei in
Afghanistan, il Presidente Bush ha detto: “Noi siamo un paese
pacifico”. L’ambasciatore preferito di Washington, Tony Blair, gli ha
fatto eco: “Noi siamo un popolo pacifico”. E così ora lo sappiamo. I
maiali sono cavalli. Le bambine sono maschietti. La guerra è pace››.
Siamo
in questo caso nell’ambito di quella che Umberto Eco chiama “guerriglia
semiologica”, destinata ad essere vinta – almeno temporaneamente –
dalla parte politica che riesce ad imporre all’uso comune la propria
terminologia, anche se non corrisponde alla realtà delle cose. Tanto
per fare un esempio, noi occidentali siamo riusciti a far chiamare da
tutti scoperta dell’America quella che dal punto di vista dei nativi è stata invece una invasione.
Così grazie alla complicità dei media quasi tutti sono convinti che
Andreotti sia uscito completamente scagionato dai processi palermitani
e se non ci fosse il libro di Lodato e Travaglio nessuno saprebbe che è
stato riconosciuto colpevole di concorso esterno in associazione
mafiosa fino alla primavera del 1980 sia dalla Corte d’Appello che
dalla Cassazione . E c’è anche il caso di una roccaforte del
Risorgimento con annessi 11 ettari di parco come il Forte Ardietti di
Peschiera, considerato “un capolavoro assoluto di architettura
militare”, che nella Finanziaria 2006, per evitare ostacoli alla sua
messa all’asta, si trasforma in un più modesto “deposito di munizioni”
(G. A. Stella sul Corriere del 16.12.05).
Qualche volta la
politica, per puro tornaconto, non cambia le parole ma il loro
significato, e così un “gruppo” nel consiglio regionale calabrese può
essere formato anche da un solo consigliere: e i “gruppi” – alle cui
spalle ci sono sedi, soldi, assistenti – si moltiplicano per successive
scissioni come le cellule, così che nell’intera assemblea se ne contano
19 di cui ben 12 composti da una sola persona. Che da sola si convoca,
si riunisce, presenta a se stessa ordini del giorno e se li approva.

Un secondo, più ambizioso scopo

della manipolazione del linguaggio è quello di determinare una
sostituzione di valori. Ne vediamo un esempio nel modo in cui il
centrodestra ha cercato di modificare il concetto di tassa e il
substrato ideologico su cui si fonda la liceità dell’imposizione.
Liceità che, sin dall’epoca delle rivoluzioni francese e americana, è
fondata sul collegamento tra imposizione da un lato, funzioni dello
stato e diritto di rappresentanza dall’altro (“no taxation without representation”).
Con
ripetute dichiarazioni dei suoi principali esponenti il centrodestra ha
fatto del tutto per rinnegare la liceità dell’imposizione e trasformare
in senso negativo la percezione che ne hanno i cittadini. La promessa
di non introdurre nuove imposte o non aumentare quelle esistenti è
stata formulata con l’affermazione “non metteremo le mani nelle tasche
degli italiani”, che inducendo un’assimilazione tra tasse e borseggio
non è certo fatta per aumentare l’osservanza spontanea dell’obbligo
tributario. Analoga operazione semantica è stata compiuta per quanto
riguarda il lavoro nero e il pagamento dei contributi sociali. Vediamo
dagli schemi che seguono come si è consumato questo scarto dai principi
costituzionali storicamente riconosciuti – anche se mai del tutto
osservati – nella nostra società. (segue)

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