E’ uscito IL PUNTO n° 98 di agosto di LiberaUscita

Il Sommario 

LA SENTENZA DI STRASBURGO SULLA LEGGE 40

2524 Ora liberi dalle ideologie – di Stefano Rodotà’

2525 – Una legge incompatibile con i diritti – di Vladimiro Zagrebelsky

2526 – Legge 40: l’ho votata e la difendo ancora – di Giuseppe Fioroni

2527 – E’ arrivata l’ora di cambiare la legge 40- di Roberta Agostini

2528 – Fecondazione, cambiare si può – di Maria Zegarelli

2529 – La procreazione davvero responsabile – di Chiara Saraceno

2530 – L’embrione non è un bambino – di Maria Mantello

2531 – Importante è poter agire secondo coscienza – di Luigi Cancrini

2532 – Il falso della legge 40 – di Furio Colombo

2533 – Dopo la sentenza europea  – di Francesco Saverio Paoletti

IN MORTE DI CARLO MARIA MARTINI

2534 – La fede e il dubbio – di Eugenio Scalfari

2535 – Un uomo di Dio – di Vito Mancuso

2536 – Quel no alla medicina che fa soffrire – di Umberto Veronesi

2537 – Fondò la cattedra dei non credenti – di Massimo Cacciari

2538 – La sua modernità era un atto d’amore per la chiesa – di Ignazio Marino

2539 – L’uomo della speranza – di Adriano Sofri

2540 – Oltre 200 mila persone per l’addio

ARTICOLI E INTERVISTE

2541 – Egoisti e solidali – di Tzvetan Todorov

2542 – Il limbo: fede e verità- di Walter Peruzzi

2543 – A proposito di fine vita – di Walter Peruzzi

2544 – Mali antichi insidiano il nostro fragile paese – di Eugenio Scalfari

DAL TERRITORIO

2545 – Le carte segrete di Benedetto XVI – libro di Gianluigi Nuzzi

2546 – Reggio Emilia – l’amm.re di sostegno può dare il consensoinformato

DALL’ESTERO

2547 – Canada – la posizione della Chiesa cattolica

PER SORRIDERE…

2548 – Le vignette di Staino – ostriche e champagne

2549 – Le vignette di Staino – i vescovi si arrabbiano

2450 – Farmacie cattoliche

LiberaUscita associazione nazionale laica e apartitica per il diritto di morire con dignità: www.liberauscita.it

2524 – ORA LIBERI DALLE IDEOLOGIE – DI STEFANO RODOTA’

da: la Repubblica di martedì 29 agosto 2012

Pezzo dopo pezzo la terribile legge sulla procreazione assistita, la più ideologica tra quelle approvate durante la sciagurata stagione politica che abbiamo alle spalle, viene demolita dai giudici italiani e europei.

Ieri è intervenuta la Corte europea dei diritti dell’uomo con una sentenza che ha ritenuto illegittimo il divieto di accesso alla diagnosi preimpianto da parte delle coppie fertili di portatori sani di malattie genetiche. Si tratta di una decisione di grandissimo rilievo per diverse ragioni, che saranno meglio chiarite quando ne sarà nota la motivazione. Viene eliminata una irragionevole discriminazione tra le coppie sterili o infertili, che già possono effettuare la diagnosi grazie ad un intervento della nostra Corte costituzionale, e quelle fertili. Viene rilevata una violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che tutela la vita privata e familiare. Viene constatata una contraddizione interna al sistema giuridico italiano, che permette l’aborto terapeutico proprio nei casi in cui una diagnosi preimpianto avrebbe potuto evitare quel concepimento. Viene messo in evidenza il rischio per la salute della madre, quando viene obbligata ad affrontare una gravidanza con il timore che alla persona che nascerà potrà essere trasmessa una malattia genetica (è questo il caso della coppia che si era rivolta alla Corte di Strasburgo perché, dopo aver avuto una bambina affetta da fibrosi cistica e dopo un aborto determinato dall’accertamento che nel feto era presente la stessa malattia, intendeva ricorrere alla diagnosi preimpianto per procreare in condizioni di tranquillità).

È bene sapere che tutte queste obiezioni erano state più volte avanzate nella discussione italiana già prima che la legge 40 venisse approvata, senza che la maggioranza di centrodestra sentisse il bisogno di una riflessione, condannando così la legge al destino che poi ha conosciuto, al suo progressivo smantellamento. La Corte costituzionale, già nel 2010, aveva dichiarato illegittime le norme che indicavano in tre il numero massimo degli embrioni da creare e accompagnavano questo divieto con l’obbligo del loro impianto. Vale la pena di ricordare quel che allora scrissero i nostri giudici: “la giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente posto l’accento sui limiti che alla discrezionalità legislativa pongono le acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione e sulle quali si fonda l’arte medica; sicché, in materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere la autonomia e la responsabilità del medico che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali” (così la sentenza n. 151 del 2010). Le pretese del legislatore-scienziato, che vuol definire quali siano le tecniche ammissibili, e del legislatore-medico, che vuol stabilire se e come curare, vennero esplicitamente dichiarate illegittime.

La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo si colloca lungo questa linea. Quando si parla del rispetto della vita privata e familiare, si vuol dire che in materie come questa la competenza a decidere spetta alle persone interessate. Quando si sottolineano contraddizioni e forzature normative, si fa emergere la realtà di un contesto nel quale le persone sono obbligate a compiere scelte rischiose proprio là dove dovrebbe essere massima la certezza, come accade tutte le volte che si affrontano le questioni della vita. Vi sono due diritti da rispettare, quello all’autodeterminazione e quello alla salute, non a caso definiti “fondamentali”. Di questi diritti nessuno può essere espropriato. Questo ci dicono i giudici, che non compiono improprie invasioni di campo, ma adempiono al compito di riportare a ragione e Costituzione le normative che investono il governo dell’esistenza. Né si può parlare di una deriva verso una eugenetica “liberale”, proprio perché si è di fronte ad una specifica questione, che riguarda gravi patologie.

Ma la sentenza della Corte di Strasburgo è una mossa che apre una complessa partita politica e istituzionale. Saranno necessari passaggi tecnici per far sì che tutte le coppie a rischio di trasmissione di malattie genetiche possano effettivamente accedere alla diagnosi preimpianto. Passaggi che potranno essere ritardati dal fatto che il governo ha tre mesi per impugnare la decisione davanti alla “Grande Chambre” di Strasburgo. Questa impugnativa è invocata dai responsabili di questo disastro legislativo e umano. Il ministro Balduzzi, prudentemente, parla della necessità di attendere le motivazioni della sentenza: Ma può il Governo scegliere una sorta di accanimento terapeutico per una legge di cui restano soltanto brandelli, di cui le giurisdizioni europea e italiana hanno ripetutamente messo in evidenza le innegabili violazioni della legalità costituzionale?

Questa sarebbe, invece, la buona occasione per uscire finalmente dalle forzature ideologiche. In primo luogo, allora, bisogna prendere atto, come buona politica e buon diritto vorrebbero, che bisogna riscrivere la legge davvero sotto la dettatura, non dei giudici, ma delle indicazioni costituzionali, obbedendo alla logica dei diritti fondamentali. Ma, in tempi di carte d’intenti e di programmi elettorali, sarebbe proprio il caso di abbandonare fondamentalismi e strumentalizzazioni. Il dissennato conflitto intorno ai “valori non negoziabili” dovrebbe lasciare il posto ad una attitudine capace di riconoscere che vi sono materie nelle quali l’intervento del legislatore deve essere in primo luogo rispettoso della libertà delle persone e della loro dignità, che non possono essere sacrificate a nessuna imposizione esterna.

2525-UNA LEGGE INCOMPATIBILE CON I DIRITTI-DI VLADIMIRO ZAGREBELSKY (*)

da: La Stampa di martedì 29 agosto 2012

La legge italiana che disciplina l’utilizzo delle procedure mediche di fecondazione assistita e più particolarmente le limitazioni che essa impone, sono oggetto di critiche e polemiche fin dalla sua approvazione nel 2004. Critiche e polemiche che riguardano sia la legge in sé, sia le linee guida emanate dal ministero della Salute per specificarne, integrarne e aggiornarne le previsioni. Come si ricorda un referendum parzialmente abrogativo venne fatto fallire nel 2005 con il non raggiungimento del quorum di votanti.

E’ recente la decisione dalla Corte Costituzionale di restituire ai giudici che l’avevano prospettata, la questione di costituzionalità del divieto di ricorso alla fecondazione con ovocita o gamete di persona esterna alla coppia (la fecondazione eterologa). La questione verrà certo riproposta e la Corte Costituzionale deciderà. In passato, nel 2009, la stessa Corte aveva dichiarato incostituzionale perché irragionevole e in contrasto con il diritto fondamentale della donna alla salute, la limitazione a tre degli embrioni da impiantare contemporaneamente, senza possibilità di produrne un maggior numero da utilizzare nel caso che il primo impianto non avesse avuto esito positivo.

Ora è un diverso aspetto della regolamentazione, che una diversa Corte ritiene incompatibile con i diritti fondamentali della persona. Ancora una volta si tratta dell’irragionevolezza di un impedimento posto dalla legge italiana all’accesso a una tecnica che è frutto del progresso medico. In proposito va ricordato che il Patto internazionale dei diritti economici e sociali delle Nazioni Unite, riconosce a tutti la possibilità di «godere dei benefici del progresso scientifico e delle sue applicazioni». Limiti e condizioni sono possibili, ma, come per tutte le deroghe a diritti fondamentali, essi devono essere ristretti al minimo indispensabile per la tutela di altri diritti fondamentali confliggenti.

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha deciso il ricorso di una coppia italiana protagonista (e vittima) di una vicenda esemplare dell’irragionevolezza della legge, che li esclude dalla possibilità di utilizzare le tecniche di fecondazione medicalmente assistita. I due ricorrenti avevano generato una figlia malata di mucoviscidosi. Fu così che essi appresero di essere entrambi portatori sani di quella malattia. Nel corso di una successiva gravidanza, la diagnosi prenatale rivelò che il feto era anch’esso malato. Ricorrendo alla legge sull’interruzione volontaria della gravidanza, essi procedettero all’aborto. Poiché tuttavia desideravano un secondo figlio e naturalmente volevano evitare che fosse malato, richiesero di procedere alla fecondazione artificiale, per conoscere lo stato dell’embrione prima di impiantarlo, escludere quello malato e utilizzare quello sano.

La legge che disciplina la materia limita il ricorso alla fecondazione medicalmente assistita al solo caso in cui la coppia è sterile o infertile. Le linee guida ministeriali del 2008 hanno ritenuto che sia assimilabile al caso d’infertilità maschile quello in cui l’uomo sia portatore delle malattie sessualmente trasmissibili derivanti da infezione da Hiv o da Epatite B e C. Ma non hanno considerato altre situazioni di genitori malati. E così alla coppia restò negata la possibilità di superare l’infermità e dar corso, con la fecondazione medicalmente assistita, a una gravidanza che si sarebbe conclusa con la nascita di un bimbo sano.

La Corte europea ha rilevato che la legge italiana nel caso in cui la diagnosi prenatale riveli che il feto è portatore di anomalie o malformazioni, consente di procedere all’interruzione della gravidanza. In effetti proprio a ciò aveva fatto ricorso la coppia, nella gravidanza successiva alla nascita della figlia malata. Vi è dunque, secondo la Corte, un’evidente irragionevolezza della disciplina, che, permettendo l’aborto e invece proibendo l’inseminazione medica con i soli embrioni sani, autorizza il più (e il più penoso), mentre nega il meno (e meno grave). La Corte ha così rifiutato gli argomenti del governo italiano, che sosteneva che la legge tende a proteggere la dignità e libertà di coscienza dei medici e a evitare possibili derive eugenetiche. Argomenti contraddetti dal fatto che la legge consente di procedere all’aborto in casi come quello esaminato dalla Corte. In più ha pesato il fatto che la grande maggioranza dei Paesi europei consente la fecondazione medicalmente assistita per prevenire la trasmissione di malattie genetiche (solo l’Italia e l’Austria la vietano e la Svizzera ha in corso un progetto di legge per ammetterla). Irragionevole nel sistema legislativo italiano e ingiustificato nel quadro della tendenza europea, il divieto ha inciso senza ragione sul diritto della coppia al rispetto delle scelte di vita personale e familiare, garantito dalla Convenzione europea dei diritti umani.

La sentenza non è definitiva. Il governo italiano può chiederne il riesame da parte della Grande Camera della Corte europea. Se diverrà definitiva, sarà vincolante per l’Italia, una modifica della legge sarà inevitabile e saranno inapplicabili le linee guida ministeriali. La Corte Costituzionale ha già più volte detto che la conformità alla Convenzione europea dei diritti umani, «nella interpretazione datane dalla Corte europea», è condizione della costituzionalità delle leggi nazionali. Una revisione della legge potrebbe convincere il legislatore ad abbandonare l’ambizione di disciplinare il dettaglio, con ammissioni ed esclusioni particolari che inevitabilmente creano disparità irragionevoli. Questa è una materia in cui occorrerebbe lasciar spazio alle scelte individuali (in questo caso quella di non rinunciare a procreare un figlio, un figlio sano) e alla responsabilità dei medici nel fare il miglior uso possibile del frutto della ricerca e dell’avanzamento delle conoscenze e possibilità umane. La Corte Costituzionale ha già ripetutamente posto l’accento sui limiti che alla discrezionalità legislativa pongono le acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione e sulle quali si fonda l’arte medica: sicché, in materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere la autonomia e la responsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali. (*) Giudice europeo dal 2001 al 2010 – Fratello di Gustavo, Presidente emerito Consulta

2526 LEGGE 40: L’HO VOTATA E LA DIFENDO ANCORA – DI GIUSEPPE FIORONI (*)

da La Stampa di martedì 29 agosto 2012 – Intervista di G. Galeazzi

Contrario Giuseppe Fioroni, medico, è il leader dell’area cattolica del Partito democratico

Strasburgo non ci impone nulla. Ho votato la legge 40 e la difendo: si può migliorare in qualche aspetto, ma non stravolgerla». Medico e leader dell’area cattolica del Pd, Giuseppe Fioroni si appella alle «linee-guida del 2007 con cui già il ministro Turco ha eliminato ogni contraddizione».

Perché la legge 40 non va cambiata?

«È una norma nata per favorire la procreazione nelle coppie sterili, tutelare i diritti dei genitori ma anche del figlio, impedire l’eterologa perché se il bambino potesse scegliere, sceglierebbe di avere un solo padre e una sola madre. È un argine di civiltà alla selezione eugenetica, altrimenti con la tecnica preimpianto si decide quali embrioni possono vivere e quali no. Ciò in un mondo esposto ai rischi della xenofobia e del razzismo porta alla ricerca della perfezione e alla rimozione di ogni imperfezione. Le linee-guida della Turco consentono la diagnosi pre impianto a fini terapeutici sull’embrione ma non la tecnica osservazionale che dà l’opportunità di scegliere il figlio che si vuole e di rimuovere quello che non si vuole».

Per Strasburgo c’è contraddizione con la norma sull’aborto…

«Non è così. La 194 non è la Rupe Tarpea, non consente l’aborto di un feto perché malato. La madre in presenza di una grave malattia del feto può chiedere l’interruzione di gravidanza per tutelare la propria salute fisica e mentale che ne verrebbe danneggiata. Dal punto di vista giuridico sia la legge 40 sia la 194 difendono il diritto alla vita del feto malato. Anche la recente convenzione Onu sulla disabilità vieta di abortire un feto un embrione perché malati o affetti da handicap».

Quali sono i pericoli senza legge 40?

«Si precipita nel Far West della “provetta selvaggia”. Si avrebbe la produzione di embrioni soprannumerari e la loro conseguente distruzione. La fecondazione eterologa altera la costituzione della coppia e inserisce un estraneo che non si assume nessuna responsabilità nei confronti del suo figlio naturale. È inaccettabile tornare a una pratica di “deregulation” per cui in materia di fecondazione artificiale si fa praticamente quel che si vuole. Va evitato, come purtroppo in molti stati accade, di creare i magazzini della vita debole per curare i forti. Procreazione e vita non possono aver nulla a che vedere coi “pezzi di ricambio” per i ricchi». (*) Deputato PD

2527 – E’ ARRIVATA L’ORA DI CAMBIARE LA LEGGE 40- DI ROBERTA AGOSTINI (*)

da l’Unità di mercoledì 30 agosto 2012

La Corte di Strasburgo ha messo a segno un altro colpo contro la legge 40. È solo l’ultimo atto di una storia di demolizione di una legge crudele ed ingiusta che dura ormai dal 2005, da quando cioè le coppie hanno cominciato a presentare ricorsi e i tribunali ad emettere sentenza sui punti più controversi ed assurdi. La Corte di Strasburgo ci offre l’occasione per riprendere un dibattito, provando ad uscire dalle forzature ideologiche e dalle contrapposizioni che hanno dominato la storia della legge, a partire dalla discussione parlamentare che si svolse durante la sua approvazione.

La Corte ci dice che c’è una sfera della vita e delle relazioni tra le persone che deve essere rispettata e riconosciuta, che non è possibile consentire la diseguaglianza tra le coppie (ora solo le coppie sterili possono accedere alle tecniche, non chi è portatore di malattie geneticamente trasmissibili), che la tutela della salute è un valore fondamentale, così come il rispetto del rapporto medico-paziente.

Per capire la necessità della modifica della legge basterebbe partire da questi tre principi di fondo e prendere atto della storia di questi anni e delle sentenze a partire da quella della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittima la norma che obbliga all’impianto contemporaneo di tre embrioni che hanno praticamente smantellato il testo e profondamente messo in discussione il suo impianto regressivo.

Basterebbe prendere atto della realtà di migliaia di coppie che compiono in tanti Paesi europei, e non solo, i cosiddetti viaggi della speranza, per rendersi conto che la legge va profondamente cambiata. Chi si sottopone alle lunghe e spesso dolorose tecniche di fecondazione assistita non sta cercando un figlio con gli occhi azzurri, ma semplicemente un figlio, possibilmente sano.

La lezione di questi ultimi anni, quelli che ci separano dal referendum del 2005 e che vide protagonisti molti scienziati, ginecologi, medici, dove misurammo una contrapposizione ideologica e spesso un uso politico della religione intorno ai cosiddetti «valori non negoziabili», sta in questi pronunciamenti della giurisprudenza, nei valori di laicità della nostra Costituzione, nella tenacia di tante coppie che sono state decise nel far valere i propri diritti.

La fiducia verso la responsabilità delle persone ed una legislazione non invasiva dovrebbero essere i principi in base ai quali ridiscutere e modificare le parti più controverse della legge, compreso il divieto di fecondazione eterologa, che ad oggi è uno dei principali motivi dei viaggi all’estero delle coppie che se lo possono permettere. Prima di fare ricorso alla Grande Camera europea, il governo dovrebbe riflettere molto bene sulla storia di questa legge e su quanto avvenuto in questi anni.

La legge 194 fu conquistata in un grande dibattito pubblico, che fece i conti con la vita concreta di tante donne che allora morivano a causa degli aborti clandestini ed ha saputo superare barriere ideologiche sulla base di un principio di fiducia verso le persone, di autodeterminazione, libertà e responsabilità, che ha prodotto una buona legge, consentendo oggi il dimezzamento del numero interruzioni di gravidanza; semmai è aperto il problema di una sua piena attuazione. Fu un passo che segnò un salto di maturazione e di consapevolezza del Paese. La nostra responsabilità, come partito nel quale vivono insieme culture, storie e provenienze diverse è quella di raccogliere la migliore eredità della nostra storia ed aiutare il Paese a compiere nuovamente questo salto provando a riscrivere una buona legge. (*) Portavoce donne PD

2528 – FECONDAZIONE, CAMBIARE SI PUÒ – DI MARIA ZEGARELLI (*)

da: l’Unità di mercoledì 30 agosto 2012

Romano Prodi, mentre si raccoglievano le firme per i referendum parzialmente abrogativi delle parti più controverse di una legge che sin dall’inizio era palesemente ideologica e chiaramente in contrasto con la 194, provò a proporre una modifica. Non fu possibile allora e non lo è stato più dopo. Soprattutto con il mancato raggiungimento dei quorum ai referendum. Ora, dopo che la Corte europea di Strasburgo boccia due articoli della legge 40, il 4 e il 13, che vietano ai coniugi portatori di malattie genetiche,

di ricorrere alla fecondazione assistita, il tema torna di attualità. Si può riscrivere un testo che si ispiri ad un approccio laico e alla legislazione europea? Dal Pd sono convinti che sì, si può fare, se non durante questa coda di legislatura sicuramente nella prossima. Livia Turco individua i tre punti su cui tornare: dare la possibilità alle coppie sterili di ricorrere alla fecondazione assistita (oggi vietata); consentire la ricerca sugli embrioni in sovrannumero che oggi vengono distrutti e stanziare fondi per la ricerca. Chi volle così fortemente la legge 40 con l’impostazione che poi è stata ripetutamente bocciata dai tribunali e dalla Consulta, in realtà puntava anche a mettere in discussione la legge 194: questo denunciavano all’epoca dell’approvazione della legge Livia Turco, Barbara Pollastrini, Ignazio Marino, i Radicali. Perché la vera crudeltà della legge 40 è nel vietare la diagnosi preimpianto anche in caso di genitori portatori di malattie genetiche. Alla donna, alla coppia, non viene lasciata che una possibilità in caso di feto malato: ricorrere all’aborto previsto dalla legge 194.

«La sentenza della Corte europea di Strasburgo, che ha bocciato la legge 40, è ineccepibile e fa seguito alle bocciature della Consulta e a numerose sentenze di tribunali confermando l`urgenza di cambiare una legge ingiusta e crudele dice Roberta Agostini, portavoce Conferenza nazionale delle donne -. Una legge che è nata in modo sbagliato, con una forzatura ideologica, e che non ha retto ai ricorsi che tante coppie hanno presentato ai tribunali e alle Corti. Quest’ultimo pronunciamento è l’occasione per riscriverla in modo radicale, tenendo conto della giurisprudenza comunitaria e cancellando le parti più assurde e controverse in modo da rispettare i diritti delle donne e delle coppie».

Dello stesso parere Vittoria Franco che all’epoca della discussione parlamentare tentò, insieme al suo gruppo, di cercare una trasversalità mai trovata. E chissà che oggi non si rimodulino le posizioni, se è vero come è vero che anche il presidente della Camera Gianfranco Fini adesso dice di riconoscersi nelle parole di Giulia Bongiorno, che definisce la legge «odiosa e sbagliata». Dal Pdl è Sandro Bondi, «come credente e parlamentare» ad auspicare «che riguardo alle questioni bioetiche e dei diritti civili, il centrodestra maturi in Italia un approccio laico che, fatti salvi alcuni principi non rinunciabili, in primo luogo la difesa della dignità della persona e il valore della vita, consenta la ricerca di soluzioni equilibrate e avanzate frutto di un dialogo e di una intesa fra laici e credenti». Segnali dall’Udc: «Il legislatore italiano dovrà in futuro tener conto delle motivazioni dei giudici che ora evidenziano una palese irragionevolezza nel divieto di analisi pre-impianto», dice Pier Luigi Mantini che si chiede come «si possono negare metodi sanitari che garantiscono la salute della madre e del nascituro? Cosa c’entra l’eugenetica?». Già, che c’entra?

A chiedere un intervento del Parlamento per «modificare una legge che non si è dimostrata all`altezza dei tempi» è anche Donato Robilotta, del Nuovo Psi che giudica «positiva la presa di posizione» di Bondi e parte del Pdl, mentre dalla Lega Roberto Maroni ribadisce la libertà di coscienza ai suoi parlamentari. Molte le critiche al governo che intende presentare ricorso contro la decisione della Corte di Strasburgo, sia dentro sia fuori il Parlamento. Dai Verdi Angelo Bonelli dice: «Invece di fare melina o cercare cavilli per difendere una norma indifendibile il governo e il Parlamento devono immediatamente mettersi a lavoro per una nuova legge. Serve un gesto d’amore per restituire il diritto alla maternità e alla paternità a tutte quelle coppie a cui è stato sottratto da una legge incoerente, contraddittoria e oscurantista». (*) Giornalista parlamentare

2529 – LA PROCREAZIONE DAVVERO RESPONSABILE – DI CHIARA SARACENO (*)

da: la Repubblica di venerdì 31 agosto 2012

Il quotidiano Avvenire, con la consueta pesantezza di toni quando si tratta di diritti dell’embrione e di status della “vita nascente”, ha agitato lo spauracchio dell’eugenetica nel caso l’Italia adeguasse la legge 40 sulla fecondazione assistita per rispondere ai rilievi critici della Corte europea dei diritti dell’uomo. Il ministro della Sanità si è subito accodato, senza un attimo di riflessione. Tra l’accusa di omicidio e quella di pratiche eugenetiche sembra non ci siano soluzioni possibili — salvo la castità e la non procreazione — per chi, consapevole della potenzialità distruttiva dei propri geni, vuole evitare di generare figli destinati quasi subito a morte orribile e certa. Il fantasma di Mengele e dei suoi “esperimenti” nei campi di sterminio viene sovrapposto a quello di aspiranti genitori responsabili, che non vogliono un bambino perfetto, ma solo un bambino che abbia la possibilità di crescere. E non vogliono neppure accettare l’ipocrita, e fisicamente e psicologicamente costosa, scappatoia offerta dalla contraddittorietà delle leggi italiane. Mentre una vieta la diagnosi pre-impianto e la stessa fecondazione assistita ai portatori sani di malattie gravi che mettono a rischio i nascituri, un’altra consente l’aborto di feti che abbiano queste stesse malattie. È questa contraddittorietà ipocrita — per altro ampiamente nota al legislatore italiano, come ha ammesso lo stesso ministro della Salute — che è stata giudicata inaccettabile dalla Corte europea. Così come è stato giudicato inaccettabile che sia sottratta agli aspiranti genitori la decisione ultima rispetto alle condizioni in cui mettere al mondo un figlio, incluse le conoscenze necessarie per valutare ragionevolmente i pro e i contro.

L’idea che ci sia una responsabilità non solo verso i figli che si mettono al mondo, una volta nati, ma prima ancora rispetto alla stessa decisione di metterli al mondo è una conquista culturale relativamente recente. Implica che ci si interroghi non solo sullo spazio che si è in grado di fare nella propria vita al nuovo nato, ma sulle condizioni in cui, appunto, lo si mette al mondo. Condizioni materiali, sociali, relazionali, ma anche di possibilità ragionevoli di sopravvivenza e di protezione da sofferenze gravi durante il processo di crescita. Come si può giudicare egoista o irresponsabile, o peggio ancora un epigono di Mengele, un genitore che vuole evitare non solo a sé lo strazio di perdere un bambino fortemente voluto, ma soprattutto a questo bambino di morire soffocato dalla propria incapacità a respirare (è il caso della fibrosi cistica)?

Certo, come tutte le conoscenze, anche quella sulle caratteristiche sanitarie e il sesso degli embrioni può avere effetti perversi, non sulle norme in sé, ma sui comportamenti. Esattamente come già oggi l’amniocentesi può dare di fatto luogo ad aborti selettivi, non solo per motivi compassionevoli, come nel caso ricordato dalla Corte Europea, ma eugenetici, ed anche per sessismo culturale. È il caso degli aborti di embrioni di femmine in molti Paesi, e presso gruppi sociali, in cui la vita di una donna non conta nulla e una figlia femmina è percepita come una disgrazia. La soluzione non è mantenere le persone nell’ignoranza.

Abbandoni, uccisione di neonate femmine o disabili, maltrattamento di bambine, ragazze, donne fanno parte purtroppo della storia dell’umanità ben prima, e indipendentemente, dell’accesso alle conoscenze mediche sugli embrioni. Contrastare questi abusi richiede forme di controllo efficaci, ma anche mutamenti culturali profondi e una diversa distribuzione di risorse, non un aumento dell’ignoranza e dei vincoli alla assunzione di responsabilità da parte degli individui. Al contrario, questa responsabilità va coltivata e fatta maturare con tutti i mezzi possibili.

Per altro, la diagnosi pre-impianto, dato che avviene solo in caso di embrioni fecondati al di fuori dell’utero e di un rapporto sessuale, riguarda casi molto più circoscritti e individuabili dell’amniocentesi. Consentirla (dopo una sentenza di un tribunale italiano del 2009) a chi ricorre alla fecondazione assistita perché ha difficoltà a procreare per le vie “naturali”, e non a chi rischia di procreare bambini destinati a sofferenze e morte precoce certa, non risponde ad alcuna logica.

È troppo sperare che il ministro della Salute e il governo di cui fa parte, prima di decidere se ricorrere contro la sentenza della Corte europea, si interroghino su quanto di irrispettoso della vita umana e del senso di responsabilità individuale ci sia nella legge 40? Senza cedere ai ricatti morali più o meno ipocriti di chi agita lo spettro dell’eugenetica per nascondere la propria incapacità a rispettare la durezza dei dilemmi in cui si trovano molti aspiranti genitori e la delicatezza di quella scelta complessa, per nulla solo biologica, e comunque non di pertinenza dello Stato, che riguarda il generare un figlio. (*) Sociologa, già docente a Torino ed attualmente a Berlino

2530 – L’EMBRIONE NON E’ UN BAMBINO – DI MARIA MANTELLO (*)

da:www.micromega.it di venerdì  31 agosto 2012)

Sobbalzano le mitre, i paramenti, le mura vaticane tutte. I Vescovi lanciano anatemi ed esigono dal Governo italiano di fare ricorso contro il verdetto della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che il 28 agosto ha bocciato la Legge 40. La creatura del cardinal Ruini.

Ma la Chiesa ha fatto la pentola e non il coperchio di questa legge, perché, se è riuscita a strapparla nel 2004 alla destra berlusconiana (felicemente supportata per l’occasione dai soliti chierichetti di centro-sinistra) e a far fallire i referendum per abrogarla con una campagna tanto invereconda quanto illegale, in questi anni la legge sulla fecondazione assistita si è sgretolata sotto il rasoio delle innumerevoli sentenze dei Tar e della sentenza della Corte Costituzionale (n. 151, 8/5/2009). Sono così caduti i divieti di creare solo 3 embrioni, di impiantarli tutti insieme e senza accertarsi per giunta se fossero malati o meno, mentre è cominciata anche a delinearsi la possibilità di accesso per le coppie fertili allo screening embrionale (sentenza 13 gennaio 2010, tribunale  di Salerno) e, probabile, non è detto che anche il tabù dell’eterologa resista.

I magistrati italiani sono entrati nella legge 40 e ne hanno condannato i suoi assurdi divieti.

Il 28 agosto è arrivato anche l’importante giudizio della Corte di Strasburgo (affaire Costa et Pavan c. Italie, requête n. 54270/10), a cui si era rivolta una coppia romana fertile per essere ammessa – al pari di ogni altra coppia infertile – alla fecondazione artificiale. La sola in grado di poter consentire agli aspiranti genitori l’analisi preimpianto, e consequenzialmente una gravidanza nella tranquillità di non trasmettere la fibrosi cistica di cui sono portatori, e quindi di non dover ricorrere neppure – come già successo nel caso di feto malato – all’aborto terapeutico.

I giudici europei hanno dato loro ragione e bocciato la legge 40 per violazione del fondamentale diritto umano di gestire in autonomia e responsabilità la propria vita personale e familiare. Un diritto tutelato dalla Convenzione europea e che lo Stato italiano trasgredisce – sostiene la sentenza – accampando per altro strumentali, illogiche e contraddittorie argomentazioni. Come infatti si può affermare – chiede la Corte europea – di proteggere la madre e il bambino impedendo lo screening  embrionale e poi lasciare alla donna come soluzione possibile quella di abortire con tutte le drammatiche conseguenze che questo ha per il feto, per i genitori, e soprattutto per la madre?

Un non-senso, che serve solo a garantire la presupposizione che l’embrione è una persona. Un’assurdità, perché come sentono la necessità di precisare a Strasburgo: «la Corte  innanzitutto osserva che i concetti di “embrione” e di “bambino” non devono essere confusi (La Cour observe d’abord que les notions d’<embryon> » et d’< enfant> ne doivent pas être confondues)».

I giudici di Strasburgo hanno messo finalmente sotto processo il peccato originale della legge 40 in cui è stata introdotta surrettiziamente la nozione di stato giuridico dell’embrione, nel tentativo di farne una persona a tutti gli effetti.

È per questo che in Vaticano si agitano tanto, la riuniana sacralizzazione del concepito che espropria dell’autodeterminazione privata e familiare è un reato. È violazione dei diritti umani. Il suo falso ideologico è smascherato.

Dovrebbe rifletterci il Parlamento, ma anche il Governo, e in particolare il suo Ministro della Salute Renato Balduzzi, che è andato a Radio Vaticana – non certo per controllare se continua l’inquinamento elettromagnetico che ha provocato morti per leucemia e per la quale l’emittente del Papa è stata condannata dalla Magistratura nel 2005 –, ma per difendere la Legge italiana sulla fecondazione assistita: «bilanciamento tra la soggettività giuridica dell’embrione, la tutela della salute della madre e altri (clericali?) valori e principi e interessi coinvolti».

Del resto, cosa aspettarsi da un ministro della Salute che pensa di tutelare la salute tassando le bibite gassate? (*) Presidente ass.ne per il libero pensiero “Giordano Bruno”

2531- IMPORTANTE È POTER AGIRE SECONDO COSCIENZA–DI LUIGI CANCRINI (*) da: l’Unità di sabato 1 settembre 2012

Ho letto il commento alla lettera di un lettore a proposito del pronunciamento della Corte di Strasburgo sulla diagnosi pre impianto vietata dalla legge 40. Non capisco perché anche Lei cada nella retorica supponendo che i contrari lo facciano in nome di Dio. Io non sono praticante, sono madre di un figlio down e sono contraria sia alla diagnosi pre impianto, sia all’aborto terapeutico che prevede la possibilità di eliminare embrioni o feti con qualche problema. Letizia Spanner

Risponde Luigi Cancrini

Considero più che legittima e assai importante una posizione come la sua e lei, cara signora, ha assolutamente ragione. Non tutti coloro che sono contrari all’aborto lo sono per motivi religiosi. Io del resto avevo scritto, prudentemente, che ad esserlo sono «molti» di loro e prendo atto con grande rispetto di questa sua precisazione.

Quello che vorrei dirle però è che inaccettabile, per me, è solo l’atteggiamento di chi utilizza dei motivi «religiosi» per dire agli altri, che non la pensano come lui, quello che possono o non possono fare. In tema di aborto e di fecondazione assistita, di testamento biologico o di divorzio, quella da cui si dovrebbe partire è l’idea di rispettare le opinioni di tutti perché la coscienza parla dentro ognuno di noi e perché quello di cui c’è bisogno per ascoltarla è il silenzio rispettoso degli altri.

Nel caso specifico della coppia che voleva evitare il rischio dell’embrione e poi del figlio malato, la Corte di Strasburgo ha detto semplicemente che sono loro a dover scegliere, non Berlusconi o il cardinal Bagnasco, nel momento in cui pensano al figlio che verrà: nella loro casa, accanto a loro. Tutto qui. Ad essere pericolosa, per loro e per noi tutti, infatti, non è un’opinione diversa ma solo la pretesa di impedire a loro due di scegliere nel modo indicato dalla loro coscienza. (*) Psichiatra e psicoterapeuta

2532 – IL FALSO DELLA LEGGE 40 – DI FURIO COLOMBO

da: il Fatto di domenica 2 settembre 2012

Siamo andati avanti facendo finta di niente. Facendo finta che una legge crudele e scientificamente assurda come la legge italiana sulla fecondazione assistita dove si impedisce di esaminare un embrione prima di impiantarlo, come se fosse uno sfizio accertare l’esistenza o no di una grave, insopportabile malattia, sia una legge civile e normale.

Suvvia, non fingiamo di non sapere che non solo per questo siamo guardati con meraviglia e con sospetto, a causa della inspiegabile separazione fra presunta modernità e a rigorosa osservanza delle leggi e degli editti vaticani. Non c’è nulla di evangelico in tutto questo. L’invenzione (ovvero scoperta e identificazione degli embrioni) è del Ventesimo secolo, poco prima della nascita dell’ex ministro Fioroni, che dichiara “mercato dell’eugenetica” la vista medica del non nato. Possibile che il religiosissimo Fioroni non abbia notato che, nella storia di Lazzaro resuscitato, c’è un intervento immediato, sicuro, sul già morto, non per creare un mercato di zombi, ma per insegnare che è giusto invocare, per quanto impossibile, un po’ di felicità?

Hanno mandato in giro per il mondo, come mendicanti di un Paese dominato dalla Sharia, donne e uomini italiani che chiedevano solo, come i parenti di Lazzaro (ma dall’altro punto cruciale della vita), di avere un bambino vivo, sano, da amare e accudire senza correre il rischio di una malattia genetica che, nella maggioranza dei casi noti, li aveva già tormentati (ma la legge 40 non era stata voluta per eliminare il “far west”? ndr).

Sono italiani” avranno mormorato negli ospedali di altri civili ospedali del mondo indicando le coppie costrette a chiedere asilo medico per avere un figlio, secondo la famosa predicazione che indica quel desiderio come il vero fine del vivere insieme di uomo e donna.

Una bella dose di ipocrisia ha orientato e guidato tutti gli altri politici e gli altri partiti e gli altri professionisti della politica, tutti i politici per timore di passare per “laicisti”, parola inventata, assente dai vocabolari ma che descrive i laici che non accettano di inginocchiarsi solo per ragioni di voto e di sottosegretaria-ti. E i medici per ragioni (purtroppo buone ragioni) di carriera. Violare la legge assurda e crudele sulla procreazione detta “assistita” li avrebbe esposti a rischi grandissimi. Purtroppo, mentre trovi legioni di obiettori di coscienza contro l’aborto pur di ingraziarsi vescovi e Papa, che alla fine pesano molto sul primariato, non trovi alcun obiettore di coscienza in aiuto delle donne che vogliono essere madri senza correre incontro alla tragedia. Qui bisogna infrangere un tabù e dire la parola “Radicali”, partito, leaders, deputati di quel partito e Associazione Luca Coscioni, di cui mi vanto di essere membro e sostenitore. È curioso per me notare che tanti colleghi, che hanno resistito per 18 anni alla grottesca mascherata della Lega, partito noto ormai solo per il razzismo dichiarato, il berlusconismo a tassametro e per il rito della divisione dei diamanti fra capi buoni (quelli che hanno in mano adesso i resti del partito) e capi cattivi, (quelli cacciati solo per portargli via il comando) si irritano un po’ a parlare dei Radicali e del loro continuo rompere le scatole sulle questioni dei diritti umani. Personalmente li apprezzo perché solo con loro ho potuto dire, in Parlamento e fuori, il disgusto e l’indecenza per una assemblea – di adulti consapevoli – che vota la legge 40 e poi ti spiega che “è il meglio che si poteva fare”.

Ma ora entriamo in una fase delicata in cui, ancora una volta, c’è il rischio di trovare solo l’iniziativa e la compagnia dei Radicali. Il fatto è questo. Pare che il ministro della Salute, Balduzzi (governo Monti) abbia detto che – contro questa sentenza, che condanna l’Italia per il livello subgiuridico e subnormale con il quale ha inserito proibizioni umilianti in una legge che dovrebbe essere di aiuto – ricorrerà in appello, ovvero presenterà il caso alla cosiddetta “Grande Chambre” chiamata a dare il parere finale. A quanto pare questo governo italiano di tecnici ha dei dubbi (“tecnici”?) sulla condanna all’irrazionale legge italiana che non esiste nel mondo. Richiederà, ci dicono, un “approfondimento” o una “riflessione”. Ovvero, anche i “tecnici” inclinano a pensare che Lazzaro non doveva risorgere e che il bambino della coppia che vorrebbe aggirare la condanna genetica, non deve nascere. Non parliamo poi delle futili madri che si permettono di sfidare la natura che rudemente ha detto loro no, con l’espediente del progresso medico, che un bambino può farlo nascere senza problemi (ormai il mondo ne è pieno). E non parliamo della legge Kabul-Roma, che vieta la procreazione eterologa scambiandola per “prostituzione assistita”. Insomma, la civiltà, nel senso di benevola protezione di tutti i cittadini secondo le regole e le possibilità della legge e della scienza, non è ancora arrivata in Italia. Per questo i “laicisti” (intesi come coloro che si sottraggono alle sharie di tutti i culti) continueranno a fare il possibile – assieme a coloro che lo hanno sempre fatto – per salvaguardare almeno un po’ l’immagine rispettabile dell’Italia.

2533 – DOPO LA SENTENZA EUROPEA  – DI FRANCESCO SAVERIO PAOLETTI (*)

Sono un cittadino: un cittadino attivista che ha profuso energie e risorse nella difesa della nostra società da quella che io considero una delle peggiori iatture del nostro tempo. Sto parlando della violazione continua e latente dei diritti umani fondamentali.

Inutile evidenziare che gran parte di queste violazioni avvengono da parte delle religioni, ma non solo. Se anzi questo dovesse servire a dimostrare che il mio impegno non è contro la religione in se stessa ma solo contro chi tenta di imporla e che sono pronto a difendere la collettività da qualsiasi scorrettezza indipendentemente da chi sia stata commessa, mi sembra opportuno ricordare che non ho esitato a portare in tribunale la mia ex-associazione (l’UAAR) per quello che io considero un comportamento oltre ogni limite accettabile da parte della sua dirigenza.

Ma non è questo il tema della presente nota.

Io ero uno di quei “laicisti” illusi che tra il 2004 ed il 2005 hanno raccolto firme, che fino all’ultimo momento hanno partecipato a incontri e convegni, che hanno fatto i rappresentanti di lista nei seggi in quello che fu uno dei più tragici referendum della storia del nostro paese. Ricordo la delusione di tutti i militanti dell’UAAR e delle altre associazioni con cui avevamo partecipato al comitato nazionale contro la legge 40 quando risultò che il quorum non era stato raggiunto.

Ora, alla faccia del Sig. Storace (che nel 2003 parlava di fare un “regalo di natale” al papa approvando la legge 40), del Sig. Rutelli (il “cicciobello” della politica italiana che, in uno dei suoi peggiori volta-faccia, sempre nel 2003 asseriva di preferire una cattiva legge al far west), di tutta l’ala confessionalista del parlamento italiano che per una ragione o per un’altra tenta da sempre di ingraziarsi la lobby clericale e (aggiungo con una nota di soddisfazione personale) del Sig. Camillo Ruini che (come il suo successore Bagnasco) non ha ancora capito i limiti del suo ruolo di presidente della CEI, la corte di Strasburgo ha decretato che quella legge contiene elementi contrari all’articolo 8 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo. Sembra infatti che il semplice particolare per cui ad una qualsiasi coppia venga vietata l’analisi pre-impianto costituisca una pesante ingerenza nella vita privata.

Si badi bene che a tale risultato si è arrivati facendo considerazioni contestualizzate nell’ambito del nostro sistema giuridico: l’incoerenza infatti è venuta fuori perché da una parte si vieta l’analisi pre-impianto e dall’altra si autorizza l’interruzione di gravidanza se il feto è affetto da una patologia che era stato vietato diagnosticare. Quindi non è un divieto in se stesso ad essere fuori dalle convenzioni, ma è il divieto inserito in quell’ambito. In altre parole: l’incoerenza ha costituito il fallo (ed il conseguente cartellino rosso).

Non è che fosse così difficile arrivare a tale conclusione, però (come si sa) per passare dalle convinzioni personali alle convenzioni ufficiali occorre seguire un certo iter. Ora l’iter è giunto alla sua conclusine e la storia ci sta dando ragione.

Per chi è abituato all’attivismo in difesa della laicità non è una novità scoprire che quando si impone una religione attraverso norme di legge è difficilissimo non violare almeno uno dei diritti umani fondamentali stabiliti dalla Dichiarazione Universale e recepiti dalla Convenzione Europea.

Nel caso della religione cattolica poi colgo l’occasione per ricordare che il teocrate a capo dello staterello di Via della Conciliazione quei documenti non li ha mai sottoscritti (anche se ne parla a spron battutto quando gli fa comodo per far presa sulle masse).

Qualcuno potrà evidenziare che questo risultato lo dobbiamo soprattutto all’Europa, perché se non ci fosse stata la corte di Strasburgo l’Italia vivrebbe ancora più isolata nel suo regime catto-clientelare che dal secondo dopoguerra (se si eccettuano alcune parentesi) ha sempre dominato incontrastato in ogni contesto della nostra vita politica e sociale. In effetti la Corte Europea ha demolito definitivamente una legge emanata da un paese sovrano.

Ma ecco che a questo punto, se mi è concesso fare un “parallelo di coerenza”, al sottoscritto sorge spontaneo un interrogativo.

Per porci questo interrogativo occorre rimettere gli orologi indietro di tre anni: era il tardo 2009 e la stessa Corte di Strasburgo accolse in primo grado il ricorso di un’altra coppia (Lautsi-Albertin) decretando che l’esposizione di un crocifisso in un luogo deputato alla pubblica istruzione costituisse una violazione alla libertà di coscienza (sempre in riferimento agli articoli della Convenzione Europea). Si badi bene che il ricorso Lautsi-Albertin non era stato portato contro una legge dello stato, ma contro una “consuetudine diffusa”: una delle tante regole non scritte (eredità di un passato medievale) che costituiscono in massima parte la vera violazione dei diritti umani in quanto figlie di tradizioni “identitarie” fuori dalla storia e di comunitarismi (spesso coatti).

Le settimane che seguirono videro la peggiore espressione dell’italietta clerical-confessionale: da Gasparri che diceva “potete morire” a Sgarbi che dal suo trespolo lanciava i suoi consueti anatemi schizoidi contro gli esponenti dell’UAAR.

Nei quattordici mesi successivi poi abbiamo assistito allo schieramento confessionalista europeo che raschiava il fondo della padella cercando disperatamente qualcuno che attuasse il ricorso in appello contro tale sentenza per conto della “teocrazia vaticana” che (essendo fuori dall’UE) non poteva agire direttamente. La “eleven confessional-nation army” era costituita da: Italia, Armenia, Bulgaria, Cipro, Grecia, Lituania, Malta, San Marino, Russia, Principato di Monaco e Romania (probabilmente, se avesse fatto parte dell’UE, vi avremmo visto anche il Monte Athos).

Il ricorso si concluse nel gennaio 2011 con un pronunciamento che capovolse letteralmente la sentenza in primo grado: ossia che la semplice esposizione di un simbolo religioso non costituisce violazione dei diritti umani.

Eccoci dunque giunti alla questione: qualcuno ha mai pensato che esporre un simbolo religioso sia contrario ai diritti umani? In qualità di attivista laico sono l’ultimo a pensare una cosa del genere.

Ma se andiamo a contestualizzare tale circostanza: se andiamo ad esporre tale simbolo in un luogo pubblico deputato alla pubblica istruzione (come le scuole) o al pubblico giudizio (come i tribunali), un luogo che in uno stato laico dovrebbe essere neutrale per antonomasia, non nasce per caso anche qui un’incoerenza?

E come mai quella stessa corte di Strasburgo che ha notato un’incoerenza molto meno evidente nella legge 40 (fino dichiararla contraria ai Diritti Umani) si è lasciata sfuggire in sede di appello questa incoerenza dettata da una consuetudine diffusa (non da una legge) e che almeno al sottoscritto (e non solo) appare abbastanza palese ?

Non sono un giurista, ma se l’avvocato Carla Corsetti (a cui va tutto il mio rispetto e la mia ammirazione) è riuscita poche settimane or sono, nella sua difesa in Cassazione del Giudice Tosti, a far figurare il crocifisso come “simbolo politico”, questo mio interrogativo può apparire legittimo oppure no? (*) Già segretario UAAR Roma

2534 – LA FEDE E IL DUBBIO – DI EUGENIO SCALFARI

da: la Repubblica di sabato 1 settembre 2012

Oso pensare che sia stato un momento sereno o addirittura felice quello di Carlo Maria Martini quando ha deciso di essere staccato dalle macchine che ancora lo tenevano in vita e consentirgli di entrare nel cielo delle beatitudini, se Dio vorrà.

Ne abbiamo parlato spesso nei nostri incontri. Lui diceva che la sua fede era salda ma si confrontava ogni giorno con i dubbi. Non sulla fede ma sul modo di usarla, di farla vivere con gli altri e per gli altri. La fede – così diceva – è al tempo stesso contemplazione e azione, ma sono due movimenti dell´anima intimamente collegati. La contemplazione è solitaria, l´azione è solidale e pastorale.

Io, da tutt´altro punto di vista, obiettavo che il dubbio sull´azione finisce per coinvolgere la fede nella sua interezza. Lui, quando gli feci quest´osservazione, rispose che infatti ogni giorno chi ha fede deve riconquistarla; questo è il compito del cristiano e in particolare del vescovo, successore degli apostoli: mettere la sua fede al servizio degli altri, quindi metterla in gioco e insieme agli altri, insieme alle pecore smarrite, riconquistarla.

Un giorno gli domandai quale fosse per lui il momento culminante della vita di Gesù: il discorso della montagna, oppure l´ultima cena o la preghiera nell´orto del Getsemani o l´interrogatorio dinanzi a Pilato o le «stazioni» della Passione o infine la crocifissione e la morte. «No – rispose – il momento culminante è la Resurrezione, quando scoperchia il suo sepolcro e appare a Maria e a Maddalena. E poi, trasfigurato, agli apostoli ai quali affida il compito di andare e predicare».

Martini è andato e ha predicato; si è confrontato, ha privilegiato i giovani preti e i laici più lontani ed ha considerato la morte come l´attimo in cui si varca la porta che conduce alla contemplazione eterna nella luce del Signore. L´anima abbandona il corpo dov´era rinserrata, ha fatto l´esperienza dei peccati, si è misurata con le tentazioni, ha pregato per gli altri in attesa di quel momento supremo. Per questo oso pensare che decidere di andare in pace sia stato l´attimo felice della sua vita.

Io non ho la fede nell´oltremondo e non la cerco. Lui lo sapeva e non ha mai fatto nulla per convertirmi. Non era questa la sua pastoralità, almeno con me. Voleva offrirmi la sua esperienza e forse utilizzare la mia. Ma quale esperienza? Non certo quella del mondo ma quella dell´anima, degli istinti, dei sentimenti, dei pensieri.

L´ultima volta che ci siamo incontrati, lo scorso inverno, gli portai il mio ultimo libro intitolato a Eros che non è certo una divinità cristiana. Lui non parlava già più, sussurrava e il suo assistente don Damiano leggeva il moto delle sue labbra e lo traduceva. Ma dopo aver rigirato tra le mani tremanti il libro, mi chiese (e don Damiano tradusse) se il protagonista del libro fosse l´amore e io risposi che sì, era un libro sull´amore e soprattutto l´amore per gli altri. E lui fece sì con la testa, per dire che gradiva il dono.

L´amore per gli altri è il modo che Gesù indicò come il solo che conduce a Dio, la «caritas» l´«agape». Quello è il compito della Chiesa apostolica: la «caritas» per arrivare a Dio attraverso il figlio che si è fatto uomo.

Quando ci lasciammo lui mi sussurrò nell´orecchio: «Pregherò per lei» e io risposi: io la penserò. E lui sussurrò ancora: «Eguale».

Oggi penso molto a lui. Lui, nell´immagine di quell´attimo finale, ha certo pensato che stava varcando la porta della vita eterna. E io penso che lui l´abbia pensato e questo mi consola della sua perdita.

2535 – UN UOMO DI DIO – DI VITO MANCUSO

da: la Repubblica di sabato 1 settembre 2012

Chi è stato Carlo Maria Martini? Si può rispondere dicendo un cardinale per lungo tempo papabile, l´arcivescovo per oltre vent´anni di una delle più grandi diocesi del mondo, il presidente per un decennio del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee.

Un biblista all´origine dell´edizione critica più accreditata a livello internazionale del Nuovo Testamento (The Greek New Testament), il rettore di due tra le più prestigiose istituzioni accademiche del mondo cattolico (Università Gregoriana e Istituto Biblico), un esperto predicatore di esercizi spirituali a ogni categoria di persone, un gesuita di quella gloriosa e discussa Compagnia di Gesù fondata da Ignazio di Loyola, un autore con una bibliografia sterminata in diverse lingue, e altre cose ancora. Ma la risposta che coglie la peculiarità della sua persona si ottiene dicendo che fu un uomo di Dio.

Il tratto essenziale della sua persona e del suo messaggio è tutto contenuto nel titolo del primo documento programmatico che egli indirizzò alla diocesi di Milano all´inizio del suo episcopato nel 1980: La dimensione contemplativa della vita. A questo obiettivo egli ha educato con i suoi insegnamenti, e ancor più con tutta la sua persona, con la voce, lo sguardo, il portamento. Accostare Martini significava infatti intravedere quanto di più alto può dimorare nel petto di un uomo, ovvero l´intelligenza che serve incondizionatamente il bene e la giustizia e che non cessa mai, neppure di fronte alle assurdità e alle tragedie del vivere, di nutrire una singolare speranza nel senso e nella direzione della vita. Se l´espressione “nobiltà dello spirito”, tanto cara a Meister Eckhart e a Thomas Mann, significa qualcosa, questo è il tentativo di descrivere l´esperienza suscitata dall´incontro con persone come Martini, profondamente uomini ma anche così diversi da ciò che è semplicemente umano, del tutto trasparenti ma non privi di silente mistero.

Martini è stato tra gli esponenti più significativi di ciò che viene solitamente definito cattolicesimo progressista, quell´ideale cioè di essere cristiani non contro, ma sempre e solo a favore della vita del mondo. In questo egli ha rappresentato uno dei frutti più belli del Concilio Vaticano II e di quella stagione che credeva nel rinnovamento della Chiesa in autentica fedeltà al Vangelo di Cristo, senza più nessun compromesso con il potere. Ora che egli è morto, quella stagione si allontana sempre di più e si fanno sempre più rare, nel mondo cattolico italiano, le voci profetiche. Ma proprio a proposito di profezia, è necessario sottolineare la sua libera autodeterminazione di affrontate la morte in modo del tutto naturale, senza sondini nasogastrici o altri apparecchi del genere messi a disposizione dalla tecnica, nella piena fiducia di chi sa che sta per entrare in quella dimensione eterna che la fede chiama “casa del Padre”.

Mi sia concesso infine un ricordo personale di colui che è stato il mio padre spirituale. Se io infatti iniziai a vivere seriamente la fede cristiana, fu prevalentemente a causa sua: in quanto vescovo della mia diocesi, egli faceva risplendere nella mia giovane mente di liceale l´ideale cristiano. Ciò che mi conquistò, fin dai suoi primi discorsi che leggevo o ascoltavo, fu il linguaggio. Prima ancora delle cose che diceva, ciò che catturava la mia giovane attenzione era il modo con cui le diceva, del tutto privo di retorica ecclesiastica ma al contempo così diverso rispetto al linguaggio quotidiano, un modo di parlare che sapeva far percepire un altro mondo senza essere “dell´altro mondo”. Le sue parole erano semplici ma severe, comprensibili ma profonde, elementari ma arcane, e soprattutto riferite sempre alle cose e alle situazioni, mai dette per se stesse, per far colpo sull´uditorio. Io ero poco più di un ragazzo e certamente allora non avrei saputo dire nulla delle caratteristiche del suo linguaggio, ma ne percepivo dentro di me l´autenticità esistenziale, avvertivo uno stile diverso, per nulla ecclesiastico ma non per questo privo di sacralità, anzi tale da farmi sentire che c´era veramente qualcosa di sacro nell´esistenza concreta degli uomini che andava servita con rettitudine, intelligenza e amore.

E questo Carlo Maria Martini ha fatto, in fedeltà a Dio e agli uomini, per tutta la sua lunga vita.

2536 – QUEL NO ALLA MEDICINA CHE FA SOFFRIRE – DI UMBERTO VERONESI

da: la Repubblica di sabato 1 settembre 2012

Di fronte al mistero e la dignità della morte di un uomo straordinario come il Cardinal Martini potremmo tacere e meditare. Oppure, pensando alla sua figura pubblica, che rimarrà un punto di riferimento per il pensiero moderno, forse invece dovremmo riflettere sulla lezione illuminata che ha voluto lasciarci anche nella sua ora suprema. Martini incarnava la Chiesa ecumenica, aperta al dialogo sia con le altre religioni che con il mondo laico. Martini si è costantemente impegnato a trovare i punti di incontro fra pensiero laico e pensiero cattolico ed ha identificato, fra questi, la situazione che lui stesso ha vissuto nei suoi ultimi giorni: quando una medicina tecnologica che cura di più, ma di più non sa guarire, si ostina (qualcuno dice «si accanisce») a intervenire con trattamenti che non hanno altro effetto se non prolungare una sofferenza e un´esistenza che non è più definibile come vita. In questo momento, ha dichiarato e scritto Martini, è lecito per ogni uomo, credente o non credente, rifiutare le cure eccessive. Così ha fatto quando è toccato a lui decidere, con coerenza, e con quel coraggio che viene dalla forza e dalla libertà del pensiero. Io, laico e non credente, avendo avuto la fortuna di confrontarmi con lui molte volte su questo ed altri temi di scienza e fede, so bene che non è mai stato facile difendere questa sua convinzione.

Certo, aveva dalla sua Giovanni Paolo II secondo il quale «quando la morte si preannuncia imminente e inevitabile, la rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all´eutanasia… ma esprime l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte». Ed anche filosofi cattolici di grande levatura, come Giovanni Reale. Ma una parte della sua Chiesa ha visto questa accettazione piuttosto come una crepa nel principio incrollabile della sacralità della vita, in base al quale la vita umana è dono e proprietà esclusiva di Dio e solo Dio può decidere come darla e come toglierla.

Martini ha risolto questo dilemma facendo appello a due pilastri del pensiero cristiano: la dignità e l´amore per l´uomo. «Non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete di valutare se le cure che gli vengono proposte sono effettivamente proporzionate». La dignità. «Questo non deve equivalere a lasciare il malato in condizione di isolamento nelle sue valutazioni e nelle sue decisioni. Anzi, è responsabilità di tutti accompagnare chi soffre, soprattutto quando il momento della morte si avvicina». L´amore. Non un sentimento retorico e universale, ma, al contrario, un amore molto concreto e personalizzato, come quello che la medicina esprime con le cure palliative, di cui Martini è stato un forte sostenitore.

Il termine «palliativo» deriva da Pallium, che significa mantello e la palliazione ha il senso di avvolgere amorevolmente il malato, per proteggerlo dal dolore fisico che può annullare, appunto, la sua dignità. «Forse sarebbe più corretto parlare non di «sospensione dei trattamenti» ma di «limitazione dei trattamenti». Risulterebbe così più chiaro che l´assistenza deve continuare, commisurandosi alle effettive esigenze della persona, assicurando per esempio la sedazione del dolore e le cure infermieristiche», ha scritto Martini recentemente. Nella dignità di ogni uomo e nell´amore per i più deboli, i sofferenti e i morenti, pensiero laico e cattolico possono trovare un terreno comune di intesa e insieme ricondurci a quell´accettazione della morte di cui parla papa Giovanni Paolo II: un evento naturale, parte di un ciclo biologico, che è oggi un valore perduto. Credo che, dopo averci insegnato molto sul significato della vita, il Cardinal Martini abbia voluto insegnarci molto anche sul significato della morte.

2537 – FONDO’ LA CATTEDRA DEI NON CREDENTI – DI MASSIMO CACCIARI

da: la Repubblica di sabato 1 settembre 2012 – Intervista di C. Br.

«Non ci sono credenti e non credenti, ma solo pensanti e non pensanti». Il cardinale Carlo Maria Martini amava spesso citare, con ironia, questa frase di Norberto Bobbio. Era per lui la prima distinzione. E però aggiungeva subito: “Poi tra i pensanti ci sono i pensanti credenti e quelli non credenti…”».

Il filosofo Massimo Cacciari ricorda con emozione la straordinaria stagione della “Cattedra dei non credenti”, che lo vide coinvolto in prima persona, tra gli organizzatori. Un´esperienza fortemente voluta dal cardinale Martini tra il 1987 e il 2002. In mezzo alle mille contestazioni, particolarmente dure, della parte più conservatrice della Chiesa, che non sopportava l´idea di veder salire in cattedra degli atei a dialogare di etica, fede, religione, cultura, giustizia, con dei cattolici. «Si trattava di una serie di incontri al centro dei quali c´era soprattutto il dialogo. Questo cercava Martini, più di ogni altra cosa».

Martini diceva che “ciascuno di noi ha in sé un credente e un non credente, che si interrogano a vicenda”.

«Appunto. Lui credeva in una fede dialogante. Viveva intensamente il dramma della fede. Al punto che chi gli stava vicino avvertiva fisicamente questo suo dramma interiore, umano».

Chi potrà portare avanti, nella Chiesa, lo stile di Martini, capace di coinvolgere i non credenti in grandi progetti comuni?

«Credo che il cardinale Gianfranco Ravasi, con la sua “Corte dei Gentili”, stia proprio portando avanti questo progetto culturale: creare uno spazio di incontro».

Il cardinale Martini ha polemizzato non poco, nella sua vita, con il mondo di Comunione e Liberazione.

«Le idee di Comunione e Liberazione sono l´opposto esatto di quelle di Martini. CL è attratta dal potere, in tutte le sue forme. Il potere della Chiesa, il potere politico, il potere economico e quello degli affari. Niente a che vedere con la profonda spiritualità di Martini».

C´è un episodio che i milanesi non possono dimenticare. Quando, nell´84, le Brigate Rosse decisero di consegnare a Martini le loro armi.

«Si arresero all´autorità spirituale della città. Non erano vinti, ma convinti da Martini».

2538 – LA SUA MODERNITÀ ERA UN ATTO D’AMORE PER LA CHIESA – I. MARINO

Intervista di Silvia D’Onghia – da il Fatto di domenica 2 settembre 2012

Preferiva non sottoporsi a sofferenze inutili, ma non si è mai sottratto alle cure utili. La sua modernità era un atto d’amore nei confronti della Chiesa”.

Ignazio Marino ha appena fatto visita, per l’ultima volta, all’amico Carlo Maria Martini, “l’uomo sulla cui porta non c’era scritto ‘cardinale’, ma ‘padre’”. Assieme all’arcivescovo emerito di Milano, il senatore-chirurgo del Pd ha pubblicato un libro, “Credere e conoscere” (Einaudi, 2012), una raccolta di conversazioni e ragionamenti sui temi etici. Quelli che non mettono d’accordo nessuno, quelli su cui spesso la Chiesa finisce per intervenire. E non è un caso che la volontà del cardinal Martini di non essere sottoposto ad accanimento terapeutico sia diventata un “caso”.

Senatore Marino, perché tanto scalpore?

Mi sembrano polemiche artificiose. Il cardinale, come da tempo diceva, si preparava a quello che definiva il ritorno alla casa del padre. E lo faceva da religioso, con la preghiera, ma anche riflettendo e dialogando sui temi della vita e della morte. Non si è mai sottratto alle cure necessarie alla sua malattia (il morbo di Parkinson, ndr), ma voleva accettare la fine della sua vita senza dover ricorrere a tecnologie che riteneva sproporzionate. Questa è la visione – e lo dico con enorme rispetto, non essendo nessuno per giudicare una sua scelta – di un uomo profondamente credente che vuole vivere con pienezza la sua esistenza terrena, ma immagina che questo sia un passaggio per il ricongiungimento con il padre.

Nella premessa al libro, lei dice “anch’io vorrei invecchiare così”. Perchè?

Era un complimento a lui e una critica a me stesso. Io ho dato spesso priorità al lavoro, da chirurgo e da parlamentare, e a volte non ho prestato molta attenzione agli altri. Invece lui non si è mai rifiutato di incontrare qualcuno che gli volesse parlare, l’ha ascoltato con interesse, curiosità intellettuale, con uno sguardo che solo in apparenza era severo, ieratico, ma che in realtà era dolce e trasmetteva positività. Anche quando gli costava fatica fisica, si alzava in piedi ad accogliere le persone. In segno di rispetto.

Un ricordo personale?

Mi fece un regalo immenso. Nel 2007, mentre ci vedevamo a Gerusalemme per lavorare al nostro dialogo, un giorno mi disse: ‘Domattina ti accompagno al Santo Sepolcro’. Può immaginare cosa sia stata la visita privata col cardinal Martini come guida… L’indomani ci trovammo alle 6,30, quando ancora non c’erano turisti e i negozi erano chiusi. Arrivò con un paio di occhiali da sole collegati a due auricolari: era un sistema elettronico con cui riusciva a sentire Mozart e gli altri 200 brani registrati. E parliamo di un uomo di 80 anni. Mi raccontò che, nell’area del Santo Sepolcro, i cristiani ortodossi, armeni, cattolici e copti si sono sempre divisi su tutto, persino sui turni delle pulizie. E che, se un tempo erano arrivati ad ammazzarsi, ora si prendevano a colpi di candelabro. Questo racconto mi ha fatto sorridere quando, a dicembre 2011, i telegiornali hanno fatto vedere che si sono presi a colpi di scope”.

Ora che Martini è morto, tutti fanno a gara per dimostrare la loro amicizia con lui. In realtà, all’interno della stessa Chiesa, era considerato un elemento di disturbo, proprio per le sue aperture sui temi etici.

Suscitava molti interrogativi per la sua modernità e per la sua totale assenza di timore nell’affrontare ogni tema. Spesso i media lo hanno fatto apparire in contrasto con altri elementi della Chiesa. Questo mi stupiva, soprattutto per il rispetto profondissimo nei confronti della stessa istituzione, che lui metteva in ogni parola e in ogni gesto. Sulla copertina del libro ha voluto scrivere: “La storia insegna come la chiusura aprioristica della Chiesa, e delle religioni in genere, di fronte agli inevitabili cambiamenti legati al processo della scienza e della tecnica non è mai stata di grande utilità”. Lo faceva per amore della Chiesa: voleva che fosse più solida, moderna e vicina all’umanità.

Quale messaggio lascia?

Il nostro Paese utilizza i temi etici per farne terreno di conflitto acre. Spero che la sua morte serva a lasciare un messaggio molto semplice: si può avere una fede profondissima, ma si può essere religiosamente laici. Senza immaginare di conoscere la verità e, anzi, vivendo con l’idea che questa vada cercata nel cammino degli altri. Come ha fatto lui.

2539 – L’UOMO DELLA SPERANZA – DI ADRIANO SOFRI

da: la Repubblica di domenica 2 settembre 2012

Leggo che la tesi teologica di Carlo Maria Martini, nel 1958, ebbe per oggetto il “problema storico della risurrezione”, dove le due parole, storia e risurrezione, sembrano contraddirsi, o almeno succedersi, e che l’una finisca dove l’altra comincia.

Eugenio Scalfari ha ricordato come, a più di mezzo secolo di distanza, alla domanda su quale fosse per lui il momento culminante della vita di Gesù, Martini gli avesse risposto: “La Resurrezione, quando scoperchia il sepolcro e appare a Maria Maddalena”. Quel punto è anche il confine invalicabile che separa il credente cristiano dal non credente. Nel dialogo fra Scalfari e Martini pubblicato qui nel maggio 2010 era stato il cardinale a proporre come argomento la Resurrezione. In quella occasione, dopo che si furono confrontati sulle reciproche idee di speranza e carità, Scalfari lo interrogò sul romanzo di Tolstoj, Resurrezione. Martini riassunse la vicenda del romanzo – con un lapsus del ricordo, facendo del principe protagonista un condannato e deportato, invece che l’uomo pentito che segue volontariamente nella deportazione la donna che aveva offeso – e concluse che era quello esattamente il percorso della conversione e della resurrezione. Era anche il punto finale comune: le resurrezioni degli esseri umani su questa terra. Il cardinale Martini è stato, fin da giovane e poi sempre, un visitatore di carceri, convinto, come detta invano anche la Costituzione dello Stato, che ai poveri cristi che le affollano sia data la speranza di risuscitare, due, tre volte, prima di quella ultima – o prima d’esser morti del tutto.

Non so oggi, ma una volta per i ragazzini tirati su nella fede la chiesa era anche una possibilità di immaginare la più straordinaria promozione sociale o la più emozionante avventura. Di diventare Papa – tutti possono diventare Papa, non è come fare il farmacista – o missionario in Congo o in Patagonia. Così rileggo le biografie di Martini, persona pur aliena dall’avventura fisica. Un ragazzino che decide che la sua vita sarà quella di un uomo di chiesa. A 17 anni, 1944, l’ingresso nella Compagnia di Gesù. Prete a 25. Biblista prestigioso, che affianca al magistero romano una personale messa alla prova accanto ai propri poveri – il rischio della chiesa è infatti di lodare la povertà e scansare i poveri: mette allegria il racconto delle persone di Sant’Egidio, su Martini che accudisce un anziano povero irascibile e anticlericale, come il non credente che vada ad accudire il povero bigotto e si sorbisca sorridendo le sue geremiadi. Poi la scelta imprevista di Karol Wojtyla che lo toglie all’accademia e lo manda, lui mai stato curato d’anime, arcivescovo a Milano, la più grande e delicata diocesi del mondo: ci resterà 22 anni, gli anni del terrorismo e poi della cosiddetta tangentopoli.

Si sono ricordati episodi di riscatto civile e umano che furono allora inutilmente controversi e che ebbero invece un sapore manzoniano: i militanti di Prima Linea che se ne congedarono depositando il loro arsenale di armi in vescovado, la decisione dell’arcivescovo di dare il battesimo ai due gemelli concepiti in un’aula di tribunale da due di quei militanti, che l’avevano chiesto. Le iniziative pastorali, il “Farsi prossimo”, la Cattedra cosiddetta dei non credenti.

Ieri ho sentito un passante milanese, intervistato da un notiziario, che diceva: “Dialogava con tutti, ebrei, musulmani, buddisti, perfino coi non credenti”. Mi è venuto da sorridere per quel “perfino”. È successo infatti alla nostra società di essere talmente assorbita dalla nozione della necessità di un confronto fra le religioni – quando non da un’ottimistica fiducia nella fratellanza (sorellanza meno…) fra “le tre grandi religioni monoteiste” – da dimenticare che il pregio più caro della nostra civiltà, pagato a così caro prezzo, sta nella confidenza e nella naturalezza con cui conviviamo, nella stessa famiglia, nella stessa cerchia di amici, negli stessi partiti e sindacati e tram e bar e chiese e stadi, fra credenti e non credenti. L’ecumenismo non esisterebbe senza questa premessa.

Leggo di Martini che diceva che in ognuno di noi c’è il coraggio e la paura, e altrove diceva: “Io ritengo che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, che si interrogano a vicenda…”. Forse per lui questo voleva dire che il coraggio coincida con la fede e la paura con la sua assenza: non è così per me, ma questa confidenza, questo scambio fra i due sentimenti, fra le due persone, è il contenuto più prezioso della nostra vita comune, e il più messo a repentaglio da una premura esclusiva per il “dialogo fra le religioni”, di cui certo nessuno può sottovalutare l’importanza.

Martini è stato anche, hanno ricordato tutti, l’interprete di “un’altra chiesa”, forse sopravvalutandone la divergenza: è un fatto che si augurava una conversione in capite et in membris. Si chiama in causa il relativismo, cui sarebbe stato incline, all’opposto del Ratzinger di cui è stato grande elettore. Non so, anche Martini parlava di “una società sottoposta alla deriva dell’arbitrio”. E Ratzinger ricorse a sua volta al paradosso di un “assolutismo relativista”. Il fatto è che un relativismo assoluto è una boutade, buona ad autorizzare il dogmatismo assoluto. Mi pare che la differenza stia altrove, e abbia a che fare con una cosa decisiva per tutti, e per i gesuiti specialmente, come la casistica. La casistica è Welby, è Eluana, voi, io, ciascuno di noi. Il dogmatismo che elogia l’assolutezza è disposto a passare sopra ai casi singolari, magari coi cingoli, come nella scelta di Piergiorgio Welby e nel rifiuto al suo funerale. Martini vi si sottraeva, in quello come in tanti altri casi, che esemplificavano in carne e ossa le questioni dichiarate graziosamente “eticamente sensibili”. Non parlava di omosessualità senza immaginare o ricordare persone omosessuali che aveva incontrato, né di profilattici, né di aborto, né di celibato dei preti (e nubilato di suore) o di pedofilia, di divorziati e risposati. Così, esemplarmente, sull’eutanasia: “Non si può mai approvare… E tuttavia non me la sentirei di condannare le persone che compiono un simile gesto su richiesta di un ammalato ridotto agli estremi e per puro sentimento di altruismo, come pure quelli che in condizioni fisiche e psichiche disastrose lo chiedono per sé… Per stabilire se un intervento medico è appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi matematica…”. 

Ammesso che io non sbagli, questa differenza ha molto a che fare con il modello dei vangeli. Quanto alla volontà di non sottoporsi a un accanimento terapeutico (espressione dubbia anche questa, perché l’aggettivo terapeutico ci entra abusivamente, ed è l’accanimento a farla da padrone) non c’è niente di cui discutere, niente che non rientri nello spirito e nella lettera dello stesso catechismo cattolico: se non fosse che uomini (e donne) pubblici e laici pretendono di fare dell’accanimento sui corpi altrui una legge dello Stato, e di gabellarla per sacralità della vita.

2540 – OLTRE 200 MILA PERSONE PER L’ADDIO

da: Adnkronos del 3 settembre 2012

Sono state oltre 200 mila le persone che, in un flusso ininterrotto, hanno portato l’ultimo saluto al cardinale emerito di Milano, Carlo Maria Martini. Un serpentone che, dopo sabato e domenica, ha continuato anche stamane a rendere omaggio alla salma. L’ingresso al Duomo, riaperto alle 7, è stato possibile fino alle 10:30; la cattedrale ha poi chiuso le porte alle 11:30. Il Duomo verrà riaperto nel pomeriggio, a partire dalle 14:30, per permettere ai fedeli di partecipare ai funerali che si terranno alle 16.

All’inizio della messa verrà letto un messaggio di Benedetto XVI dal cardinale Angelo Comastri, vicario del Pontefice per la Città del Vaticano, che rappresenta il Papa alle esequie. A presiedere la celebrazione sarà invece il cardinale Angelo Scola.

L’accesso alla cattedrale è libero e consentito fino all’esaurimento dei posti disponibili. Chi non riuscisse ad accedere potrà seguire la celebrazione anche da piazza Duomo: per l’occasione sono stati predisposti due maxischermi nella piazza che trasmetteranno la diretta.

2541 EGOISTI E SOLIDALI – DI Tzvetan Todorov (*)

da: la Repubblica di mercoledì 1 agosto 2012 – Traduzione di Luis E. Moriones

La popolazione degli stati europei è costantemente sollecitata a venire in aiuto di coloro che stanno peggio, vittime di catastrofi naturali, o di guerre civili e internazionali, o dell’incuria dei loro dirigenti. Ma dove trovare delle ragioni per andare a soccorrere gli altri, e dunque accettare dei sacrifici?

Prima risposta suggerita: nella morale. La grande tesi delle religioni monoteiste, ripresa dalla maggioranza delle correnti filosofiche, è che la natura umana è cattiva: se l’uomo fosse subito virtuoso, a che pro caricarsi un dio? In quest’ottica, la morale è un’acquisizione tardiva e artificiale; il comportamento delle bestie è inevitabilmente bestiale, il progresso dell’umanità consiste nel distaccarci dalla nostra condizione animale. Senza costrizione, controllo, educazione, gli esseri umani si comportano da puri egoisti, come aggressori senza scrupoli, impegnati a lottare, nel corso della loro intera esistenza, per la conquista di un posto migliore.

Questa opposizione tra natura e morale, realtà e volontà, comporta un rischio: che rinunciamo a costruire una diga per frenare i nostri desideri e scegliamo invece di conformarci a ciò che la scienza ci insegna sulla natura del mondo. I difensori di questa opinione hanno creduto di trovare un solido appoggio nelle teorie di Darwin e dei suoi discepoli sull’evoluzione delle specie. Dato che, per migliorare la specie, i deboli e i “difettosi” vengono eliminati presso le altre specie animali, non dovremmo procedere allo stesso modo anche nel caso degli umani? Nei primi decenni del secolo XX, numerosi paesi occidentali (Stati Uniti, Canada, paesi scandinavi) hanno già votato delle leggi eugeniste e proceduto a delle sterilizzazioni forzate. La Germania nazista ha adottato una politica di sterminio di individui e di razze ritenuti inferiori. Ai nostri giorni, trasferiamo gli stessi principi in altri campi: dato che la competizione dice la verità della vita, affermano i teorici del neoliberalismo, la società migliore è quella che lascia libero corso alla concorrenza e al mercato libero da ogni costrizione.

In realtà, la posizione di Darwin è molto più complessa. Rinunciando decisamente a qualsiasi idea di progetto divino e quindi anche di progresso, sia esso dovuto alla provvidenza o alla storia, egli insiste sul fatto che la differenza tra gli animali e gli uomini è di grado, non di natura. Anche le basi della morale si ritrovano già presso le altre specie. E, da qualche decennio, dei lavori pionieristici condotti dai primatologi, da specialisti della preistoria o da antropologi che lavorano su popolazioni di cacciatori-raccoglitori hanno constatato la presenza, dalle origini della specie umana, di atteggiamenti di compassione e di cooperazione, senza i quali i nostri antenati non sarebbero riusciti a sopravvivere.

Allo stesso tempo, basta guardarsi intorno per constatare che i rapporti umani non si reggono solo sulla cooperazione generosa. La natura non ci impone la guerra di tutti contro tutti, ma nemmeno la benevolenza sistematica. Il buon selvaggio è tanto immaginario quanto il cattivo selvaggio. Bisogna ammettere che questi due tipi di comportamento trovano origine nella nostra natura animale, ma che il predominio dell’uno o dell’altro dipende dalle circostanze. L’errore consiste, innanzi tutto, nell’ignorarne uno a detrimento dell’altro. E come nell’eterna disputa tra innato e acquisito, donato e voluto: attenersi a uno dei termini escludendo l’altro può comportare delle conseguenze disastrose. Alla riduzione degli individui alla loro eredità biologica presso i nazisti, corrisponde presso i bolscevichi la convinzione che la volontà non trovi alcun limite e che, sia con le piante che con gli uomini, possiamo sempre ottenere il risultato voluto. È così che la Russia si è coperta di una rete di campi che avrebbero dovuto assicurare la rieducazione del popolo.

Le reazioni morali di compassione e di cooperazione dipendono in particolare da tre variabili: il grado di prossimità tra il benefattore e il beneficiario; il posto che occupa la vittima nella scala del potere; la gravità del disastro. L’aiuto reciproco va da sé tra membri intimi di una famiglia, è scritto nella legge tra concittadini (solidarietà nei confronti degli anziani e dei malati), è presente ma problematico tra le nazioni dell’Unione Europea; e, per quanto riguarda il resto dell’umanità, è presente solo nel caso di un’immensa sventura, tsunami o genocidio, o di vittime impotenti, come i bambini. D’altro canto, la caduta di chi era potente, lungi dal provocare la compassione, suscita nella maggior parte di noi una sorta di godimento, come se l’ordine del mondò fosse stato ristabilito. Gli uomini-formica non hanno compassione per le disgrazie degli uomini-cicala, ritenuti responsabili del loro destino.

L’appello alla morale naturale non sempre è sufficiente per superare il nostro egoismo. La ragione può intervenire a sua volta, dimostrandoci che seguire solo i nostri interessi immediati ci impedisce di favorire i nostri interessi a lungo termine. Il puro egoismo distrugge gli altri intorno a noi, ma la nostra felicità dipende da loro: abbiamo bisogno di essere amati e di amare a nostra volta.   (*) Filosofo e saggista, ha scritto sui totalitarismi del Novecento. 

2542 – IL LIMBO: FEDE E VERITA’- DI WALTER PERUZZI

da www.cronachelaiche.it di venerdì 24 agosto 2012

Un esempio, non certo l’unico, di quanto la Chiesa sia ben poco “infallibile” e anzi molto disinvolta nel cambiare “verità” quando ciò le torni utile, è la “abolizione” del Limbo, decretata il 22 aprile 2007 dalla Commissione teologica internazionale, con l’approvazione di Benedetto XVI. Alle origini della decisione è la necessità di rispondere a un problema pastorale che secondo la Chiesa è oggi diventato “urgente”: l’alto numero di bambini, feti ed embrioni, che muoiono senza battesimo, o perché figli di genitori non credenti, o a causa dell’aborto.

Senza battesimo non c’è salvezza

Per il Catechismo romano del Concilio di Trento (1566), «il Battesimo è necessario a tutti, senza eccezione. Lo ha dichiarato Gesù stesso: “Se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio” (Gv 3,5)». Questa dottrina era stata professata dalla Chiesa per secoli. Secondo Agostino «i bambini che muoiono senza il battesimo si troveranno nella condanna, benché mitissima» (a paragone degli altri dannati). Nel 418 papa Zosimo decretò: «se qualcuno afferma. che nel regno dei cieli ci sarà qualche luogo posto nel mezzo o un luogo altrove, dove vivono come beati gli infanti che trapassarono da questa vita senza battesimo [.] sia anatema; chi manca della parte destra, senza dubbio finirà in quella sinistra». L’affermazione di Pelagio, secondo cui anche i bambini morti senza battesimo possono salvarsi, fu condannata come eretica nel V secolo e fu una delle eresie che portò Wycliff al rogo nel secolo XIV. La convinzione che senza battesimo non c’è salvezza fu ribadita da vari papi (Gregorio I, Innocenzo III, Eugenio IV, Pio XII) e non fu senza conseguenze pratiche. È uno dei motivi per cui la Chiesa condannò con particolare violenza l’aborto che, non permettendo il battesimo del feto, «esclude dalla beata visione di Dio un’anima creata a sua immagine» (Sisto V, Effraenatam, 1588). Tale posizione costò la vita a molte donne, poiché la Chiesa ordinava di far nascere il bambino ad ogni costo, anche se sarebbe morto subito e il parto avrebbe causato la morte della madre: l’importante era tenerlo in vita il tempo sufficiente per battezzarlo. Fra la vita spirituale del feto e quella materiale della madre, avvertiva Alfonso de’ Liguori, bisogna scegliere la prima.

Entra in scena il Limbo

Durante il Medioevo però si cominciò ad affermare l’idea di un luogo intermedio, il Limbo, distinto fra “limbo dei fanciulli”, dove starebbero in eterno i bimbi morti senza battesimo, e “limbo dei patriarchi”, dove stavano i santi patriarchi morti prima di Cristo, finché non furono liberati da lui e portati in Paradiso. Nel 1794 Pio VI ribadì l’esistenza del “limbo dei fanciulli”, ancora come parte dell’Inferno. Nel 1912, finalmente, il Catechismo della dottrina cristiana di Pio X, lo riconobbe come luogo a sé stante, distinto sia dal Paradiso sia dall’Inferno. Per Pio X i bambini morti senza battesimo «vanno al Limbo, dove non è né premio soprannaturale né pena; perché, avendo il peccato originale, e quello solo, non meritano il paradiso, ma neppure l’inferno o il purgatorio». Cambia così la dottrina, e si rifiuta la formula dicotomica imposta da Zosimo sotto pena di anatema, secondo cui «chi manca della parte destra, senza dubbio finirà in quella sinistra».

Il Limbo esce di scena

Qualche teologo sottile ha sostenuto tuttavia che non c’è contraddizione con la dottrina tradizionale, poiché anche nel Limbo manca la visione beatifica e ciò corrisponderebbe alla condanna “mitissima” di cui parlava Agostino. Ma anche questa ipotetica continuità viene meno col Catechismo della Chiesa cattolica del 1992, approvato da Giovanni Paolo II. Qui si afferma, in conformità alla tradizione, che «i bambini hanno bisogno della nuova nascita nel Battesimo». Però si aggiunge, contraddittoriamente: «La grande misericordia di Dio che vuole salvi tutti gli uomini e la tenerezza di Gesù verso i bambini [.] ci consentono di sperare che vi sia una via di salvezza per i bambini morti senza Battesimo». Infine, il 22 aprile 2007, un documento della Commissione teologica internazionale, approvato da Benedetto XVI, declassa il Limbo ad “ipotesi teologica” che «non possedeva la certezza di un’affermazione di fede», attribuendo «serie basi teologiche e liturgiche alla speranza che i bambini morti senza battesimo siano salvi e godano della visione beatifica».

Un dubbio ci assale

In conclusione, dobbiamo credere che i bambini morti senza battesimo vadano all’Inferno, secondo quanto insegnato nel Catechismo romano di Pio V, o che vadano al Limbo, ma siano comunque privati della visione beatifica, come insegna il Catechismo di Pio X? O magari che entrambe queste affermazioni sono sbagliate, e che quindi tutta la cattolicità fino ad oggi è caduta in errore? E, in questo caso, chi ci garantisce che domani non ci sarà data a credere per vera un’altra versione ancora? Inoltre, se non è più vero, o quantomeno certo, quanto papi e concili hanno imposto a milioni di fedeli, colpendo con l’anatema e il rogo chi pensava il contrario, possiamo davvero ritenere la Chiesa “colonna e sostegno della verità”, e maestra infallibile, secondo quanto recita il catechismo attualmente in uso? Nel frattempo sono morte, sembra per niente, le donne cui sono stati fatti partorire bambini moribondi, solo per amministrare loro il battesimo, secondo l’ordine tassativo di Santa Madre Chiesa.

2543 – A PROPOSITO DI FINE VITA – DI WALTER PERUZZI

da: www.cronachelaiche.it di domenica 2 settembre 2012

La Chiesa cattolica, si legge nel Catechismo del 1992 approvato da Giovanni Paolo II, condanna sia l’eutanasia, che «costituisce un’uccisione gravemente contraria alla dignità della persona umana e al rispetto del Dio vivente, suo creatore», sia l’accanimento terapeutico, poiché ritiene che può essere legittima «l’interruzione di procedure mediche dolorose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati ottenuti […] Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente».

Ma è sempre eutanasia…

In concreto, tuttavia, per la Chiesa non si dà mai il caso in cui si può “interrompere” la cura per evitare l’accanimento. Così, quando Piergiorgio Welby, affetto da una malattia incurabile ormai arrivata allo stadio terminale col rischio di morte per soffocamento, decise nel 2007 il distacco dalle macchine, la Chiesa gli rifiutò il funerale religioso, concesso quasi negli stessi giorni al sanguinario dittatore Pinochet, e sostenne l’accusa (poi archiviata) di omicidio contro il medico che lo aiutò.

Anche per Eluana Englaro, da 16 anni in stato vegetativo permanente, senza possibilità di ripresa, la Chiesa non ritenne “straordinaria” l’alimentazione artificiale che la teneva in vita (se così si può dire) e si oppose con accanimento (manifestazioni e grida) alla sua interruzione. La Chiesa e gli ambienti clericali arrivarono anzi a definire «esecuzione capitale» e «condanna a morte» la sentenza del Tribunale che il 9 luglio 2008 autorizzò il padre di Eluana a sospendere l’alimentazione, come poi avvenne; l’accusa di omicidio, poi archiviata, fu rivolta anche a Peppino Englaro.

La questione fu posta in termini generali, nell’agosto-settembre 2007 dalla Conferenza episcopale statunitense, che chiese: «Se il nutrimento e l’idratazione vengono forniti per vie artificiali a un paziente in ‘stato vegetativo permanente’, possono essere interrotti quando medici competenti giudicano con certezza morale che il paziente non recupererà mai la coscienza?» La Congregazione per la Dottrina della Fede, con l’approvazione di Benedetto XVI, rispose: «No. Un paziente in ‘stato vegetativo permanente’ è una persona, con la sua dignità umana fondamentale, alla quale sono perciò dovute le cure ordinarie e proporzionate, che comprendono, in linea di principio, la somministrazione di acqua e cibo, anche per vie artificiali».

L’ipocrisia di Wojtyla, l’esempio di Martini.

Tutto diventa così eutanasia da contrastare – salvo nel caso di papa Wojtyla, che non volle essere ricoverato in ospedale dopo l’ultima ricaduta e verso cui si praticò quindi, con tipica ipocrisia cattolica, una sorta di inconfessata eutanasia “passiva”. O salvo il caso del cardinal Martini che, in aperto dissenso con la Chiesa ufficiale, oppose un fermo rifiuto all’accanimento terapeutico e – coerentemente – rifiutò per sé, malato terminale di Parkison, proprio quella somministrazione «per vie artificiali», col sondino, dell’acqua e del cibo che la Chiesa vorrebbe imporre a tutti i cittadini italiani tramite la legge sul testamento biologico proposta da una classe politica genuflessa.

Proprio a questo fine “Avvenire” ha cercato di neutralizzare l’esempio dirompente di Martini e di cambiare le carte in tavola scrivendo che «la sua posizione sull’accanimento terapeutico “era nota”. Era di contrarietà. Era quella della morale cattolica. Ed è stata rispettata» (Lorenzo Rosoli, 1 settembre). Bugiardi e ipocriti fino in fondo.

La contraddittoria volontà di Dio

Tornando alla posizione della Chiesa (quella vera, contraddetta da Martini) si possono muovere almeno due obiezioni fondamentali. Prima di tutto, a che titolo la Chiesa può non solo arrogarsi il diritto di interpretare il pensiero di Dio – affermando cioè che secondo lui ci si deve tenere in vita anche a costo di ricorrere a metodi artificiali – ma può pretendere di imporre questa sua interpretazione del volere di Dio a chi in Dio non crede o crede in un Dio differente, facendo dell’opinione cattolica sul fine vita una legge dello stato laico?

In secondo luogo, se davvero Dio ci obbliga a usare la moderna tecnologia per protrarre una vita anche in modo artificiale, perché dovrebbe poi vietarci di usarla per evitare nascite sgradite o pericolose, o per la fecondazione assistita? È fin troppo evidente che dietro tale orientamento bizzoso e contraddittorio “di Dio” si nasconde la volontà della Chiesa, di esercitare il controllo sulla vita e sulla morte delle persone, come estrema forma di potere, e di imporre una concezione della vita come valle di lacrime che a tale potere è funzionale

2544 – MALI ANTICHI INSIDIANO IL NOSTRO FRAGILE PAESE- DI E. SCALFARI

da: la Repubblica di domenica 2 settembre 2012

Ho ancora nel mio cuore e nei miei pensieri l’immagine di Carlo Maria Martini mentre il popolo sfila davanti al suo feretro e gremisce il Duomo e la grande piazza di Milano dove per tanti anni esercitò la sua missione di Vescovo. Se n’è andato un padre che poteva anche essere un Papa alla guida della Chiesa in tempi così procellosi?

No, non poteva essere un Papa e non era un padre. È stata una presenza ancora più toccante e inquietante: è stato un riformatore che si era posto il problema dell’incontro tra la Chiesa e la modernità, tra il dogma e la libertà, tra la fede e la conoscenza. “Non sono i peccatori che debbono riaccostarsi alla Chiesa ma è il pastore che deve cercare e ritrovare la pecora smarrita”. Così diceva e così faceva.

È morto nel pomeriggio di venerdì, i medici l’avevano già sedato, ma la mattina di giovedì aveva ancora celebrato la messa e mormorato dentro di sé il Vangelo perché la voce era del tutto scomparsa, le mani non reggevano più neppure l’ostia e non deglutiva. Ma la mente era vigile, la fede intatta e lui sorretto davanti all’altare ne era la prova vivente.

Pochi giorni prima aveva risposto ad un suo confratello che gli chiedeva quale fosse lo stato della Chiesa: “C’è ancora una brace ardente nel braciere, ma lo strato di cenere che la ricopre ha un tale spessore che rischia di spegnerla del tutto. Perciò bisogna disperdere quella cenere perché il fuoco torni a riaccendersi”.

Chi l’ha seguito condividendone la fede dovrà ora impegnarsi a disperdere quella cenere ma dubito molto che si riesca. Chi ne ha apprezzato il coraggio e la modernità di pensiero dovrà farne uso per evitare che la modernità si incanaglisca nello schiamazzo e si impantani negli egoismi e nella palude dell’indifferenza.

Questo è il tema che oggi voglio affrontare. Lo dedico a lui per la sua lotta contro tutte le simonie. Quella lotta è anche la nostra e la sua immagine ci incita a restarle fedele.

Noi viviamo in un Paese arrabbiato, in un continente arrabbiato, in un mondo arrabbiato. Questa situazione non è normale. La rabbia sociale è un elemento permanente in ogni epoca perché in ogni epoca ci sono ingiustizie, invidie, rancori. Ma non dovunque, non in tutto il pianeta contemporaneamente. Questo invece sta accadendo. C’è rabbia in Siria, in Iran, in Palestina, in tutto il continente africano dal nord al sud e dall’est all’ovest; c’è rabbia in Russia, in Ucraina, in Cina, in Giappone, nelle Filippine. E in tutti i Paesi di antica opulenza, oggi in crisi, in perdita di velocità e costretti a darsi carico delle rabbie altrui e delle proprie. La rabbia sociale accresce gli egoismi e ottunde la consapevolezza. Chi odia è posseduto da nevrosi di gelosa invidia e da istinti distruttivi. Chi odia vuole distruggere. La rabbia divide e al tempo stesso unisce, gli individui arrabbiati diventano folla, la folla è una forza anonima sensibilissima alle emozioni che evocano i demagoghi.

La demagogia è il climax ideale di questa fase e di solito  – così insegna la storia  –  non ha altro sbocco se non la perdita della libertà. I demagoghi lo sanno ma rimuovono questo pericolo confidando nel loro virtuosismo di trattenere le folle agganciate al loro precario carisma. Rabbie sociali, folle emotive, demagoghi che cavalcano quelle emozioni e ne diventano le icone; poi quelle stesse folle applaudiranno e isseranno sulle loro spalle i dittatori che imbavaglieranno le loro bocche e li legheranno alla catena della servitù.

La storia è gremita di esempi, ma noi ne abbiamo avuti in casa di recenti. L’arma di cui si servono sia i demagoghi sia i dittatori, che spesso sono le stesse persone e coprono gli stessi interessi, è la semplificazione. Le folle non sopportano i ragionamenti complessi, vogliono risposte immediate, vogliono emozioni forti, vogliono il nemico da abbattere, il traditore da linciare, il bersaglio sul quale concentrare i colpi.

I Paesi di antica democrazia possiedono anticorpi robusti che riescono di solito a contenere e a vincere il virus demagogico. Ma noi italiani non viviamo in un Paese di antica e solida democrazia.

La democrazia ha come condizione preliminare l’esistenza dello Stato. L’Italia ha uno Stato, creato appena 150 anni fa, che la maggioranza degli italiani non ha mai amato. Non lo amò quando nacque, si ribellò contro di esso tutte le volte che poté. Il fascismo nacque da una ribellione contro lo Stato che nasceva da sinistra e fu utilizzata dalla destra. Ne venne fuori lo Stato totalitario, cioè la negazione della democrazia.

Poi la democrazia arrivò, frutto delle catastrofi della guerra, ma quanto fragile! Basta una spinta, basta un buon venditore di slogan, basta una dose di antipolitica per ammaccarla e mandarla in pezzi.

Il procuratore generale dell’antimafia ha detto l’altro giorno che “menti finissime sono al lavoro per colpire le Procure e il capo dello Stato”. Può darsi che sia così, ma non credo ci vogliano menti finissime. In un Paese nel quale alligna la furbizia e il disprezzo delle regole, basta una ciurma di demagoghi da strapazzo per provocare un incendio. I piromani mandano a fuoco ogni estate decine di migliaia di ettari di bosco e ancora non si è capito il perché.

I focolai dell’incendio sono numerosi ma il più esteso deriva dal fatto che l’economia europea è da un anno in recessione e ci resterà per un altro anno ancora. Noi siamo purtroppo in testa a questa classifica per una ragione evidente: siamo in coda nel tasso di produttività, di crescita e di investimenti; per di più abbiamo accumulato uno dei debiti pubblici più grandi del mondo.

Responsabilità? Generali. La politica ne ha molte perché ha sempre preferito guardare all’oggi anziché al domani; una responsabilità non minore ce l’hanno il capitalismo italiano, le lobby, le clientele. Anche i sindacati, forse un po’ meno di altri ma comunque non trascurabili: hanno difeso più il posto di lavoro che il lavoro, favorendo in questo modo l’ingessatura del sistema produttivo e rendendo difficile la mobilità sociale. Questo non è un errore da poco, caro Landini.

Adesso molti di questi nodi sono arrivati al pettine e i sacrifici sono diventati necessari. Ma i sacrifici non piacciono a nessuno e scatenano la rabbia sociale. “Vengono colpiti i soliti noti”. In gran parte è vero ma bisognerebbe anche capire che mille euro tolti a 20 milioni di persone dovrebbero salire a duecentomila euro se le persone fossero soltanto centomila di numero. Gli evasori ovviamente sono infinitamente di più e per quanto li riguarda il problema è la loro rintracciabilità.

Comunque: i sacrifici non piacciono a nessuno ed è quindi normale che creino disagio, in certi casi anche molto acuto. Poi ci sono focolai di incendio più ristretti nella loro estensione ma molto più intensi.

Uno di questi è certamente l’Alcoa che gestisce le miniere sarde di carbone allo zolfo. Quelle miniere  –  lo ricorda Alessandro Penati su la Repubblica di ieri  –  furono aperte a metà dell’Ottocento. Poi furono chiuse perché il carbone di quella qualità non aveva mercato e la sua produzione era antieconomica. Ma poiché in quella zona della Sardegna non c’erano altre risorse per creare lavoro, la sequenza di aperture, chiusure e riaperture delle miniere fu continua ed è durata fino ad oggi passando dallo Stato all’Iri, all’Enel, all’Eni. Infine anche l’Eni chiuse perché il carbone allo zolfo non lo comprava nessuno.

Lo Stato però riuscì a vendere le miniere alla società canadese Alcoa che produce alluminio ed ha bisogno di carbone. Il costo di quello del Sulcis era fuori mercato e l’Alcoa accettò il contratto solo se lo Stato gli avesse fornito l’energia elettrica necessaria alla produzione di alluminio a prezzo sussidiato. Il contratto è durato 15 anni, il sussidio è stato pagato da ciascuno di noi nella bolletta dell’energia elettrica. Adesso è scaduto e lo Stato non lo ha rinnovato, per cui l’Alcoa se ne va salvo nuove trattative per nuove soluzioni.

La rabbia dei cinquecento minatori si è almeno in parte placata dopo l’annuncio dato dal ministro Passera a trecento metri di profondità e forse una soluzione sta per essere trovata.

È invece ancora in altissimo mare la questione dell’Ilva di Taranto. La riassumo con le parole del giovane attore Riondino che è uno degli esponenti nel movimento di protesta tarantino: “I lavoratori dell’Ilva, compreso l’indotto, sono diciottomila. Diciamo pure che considerando il sub-indotto arrivino a trentamila. Sono molti e la chiusura dell’azienda per loro è una catastrofe. Ma la popolazione di Taranto, compresi quei trentamila lavoratori, è di 186 mila abitanti, tutti quanti, bambini e neonati compresi, respirano polvere di carbone dalla mattina alla sera: un’incubazione che passa da una generazione all’altra e che mette Taranto al più alto livello di tumori delle vie respiratorie”.

Questo è il problema. La rabbia dei lavoratori si somma a quella di tutti gli abitanti per due ragioni diverse anzi opposte: il lavoro e la salute. I sindacati e le parti politiche di riferimento vorrebbero conciliare le due cose, ma ci vuole molto tempo e moltissimi soldi che lo Stato non ha. E quindi la rabbia infuria.

Di esempi analoghi c’è una lista lunghissima. Ciascuno produce rabbia. I motivi, le cause, le responsabilità sono diversi, ma tutto si unifica. Agitate con energia e il cocktail è pronto.

Tanti fiumi più o meno fangosi si uniscono a valle in un solo grande fiume e un solo delta, ma quel delta diventa palude perché manca  –  vedi caso  –  la liquidità.

Nel caso specifico la liquidità è Draghi che dovrebbe darla e a quanto risulta sembra deciso a farlo. Darà battaglia il 6 prossimo al Consiglio direttivo della Bce e aspetterà il 12 la sentenza della Corte costituzionale tedesca sul fondo salva-Stati. Poi si muoverà. Forse, per superare l’opposizione della Bundesbank, chiederà l’ok dell’Ue e Monti dovrà fare in modo di farglielo avere impegnandosi ad un calendario rigoroso per attuare iniziative già approvate dal Parlamento che attendono però i decreti attuativi.

L’intervento di Draghi sarà della massima importanza per uscire dal pantano, mitigare le rabbie, depotenziare i demagoghi e consentire che Monti porti a termine il suo lavoro con l’appoggio indispensabile del presidente della Repubblica, senza il quale saremmo da un pezzo finiti nell’immondezzaio dell’Europa.

Ma è anche necessario uno sfondo politico per un’Europa politica. Ci sarà?

Il cardinale Martini si occupò anche di questo problema e lo espose con parole chiarissime dinanzi al Parlamento di Strasburgo dove fu invitato a parlare nel 1997. Trascrivo le sue parole a chiusura di questo articolo che ho a lui dedicato. “L’Europa si trova dinanzi a un bivio decisivo della sua storia. Da un lato si apre la strada d’una più stretta integrazione politica che coinvolga i popoli europei e le loro istituzioni. Dall’altro ci può essere un arresto del processo di unificazione o una sua riduzione solo da alcuni aspetti economici e limitatamente ad alcuni Paesi”.

Questo è il dilemma: la nascita d’una vera Europa in un mondo globale o la sua irrilevanza politica e storica. Gli italiani responsabili non possono essere indifferenti di fronte a questo dilemma.

2545 – LE CARTE SEGRETE DI BENEDETTO XVI – LIBRO DI GIANLUIGI NUZZI

Sempre edito da Chiarelettere, dopo il successo di “Vaticano S.p.a.” sullo scandalo dello Ior, il noto giornalista Gianluigi Nuzzi ha pubblicato qualche mese fa un altro volume che sta riscuotendo ancora molto successo di vendita, sulle storie, i personaggi ed i travagli che oggi dividono la Chiesa, grazie alle informazioni rilasciate da una fonte segreta con nuove rivelazioni di affari poco trasparenti, congiure e spionaggio in stretto collegamento con lobby finanziarie e governo italiano.

Le carte segrete di Benedetto XVI vengono messe alla luce e commentate come se ci si trovasse dentro una sorta di thriller tanto che l’autore verrà additato come un novello Dan Brown, anche se non ha mostrato sicuramente l’intenzione di gettare fango sui sacri palazzi ma, bensì, ha risposto all’esigenza di fare chiarezza e divulgare un materiale veramente inquietante dal quale affiora l’ambiguità sugli oscuri rapporti tra potere vaticano e potere politico nel nostro paese.

La novità e l’elemento di rottura di questo libro dai toni molto pacati, di cui si prevede per il prossimo inverno la pubblicazione anche all’estero, a detta di Nuzzi consiste nell’aver sollevato tranquillamente delle problematiche a differenza di ciò che avviene solitamente nel mondo dei mass-media e della comunicazione in generale.

Un semplice libro per l’appunto, che, partendo dalla descrizione dello stile di vita quasi monacale del papa giunge al giornalismo investigativo nel quale l’autore si troverà catapultato con tutti i suoi rischi ed accorgimenti, una volta entrato nel sistema di informazione e sicurezza vaticana, definito da Simon Wiesenthal “l’apparato di intelligence migliore e più efficace al mondo”.

Ed ecco svelati i segreti sulla pedofilia, la nuova inchiesta per riciclaggio bancario dello Ior, i Legionari di Cristo, la vicenda delle case Propaganda Fide, le strategie di Comunione e liberazione, il suicidio di Mario Cal il quale gestì, insieme a don Verzè, l’ospedale San Raffaele di Milano. Compare nuovamente la figura dell’arcivescovo Marcinkus, ora ricordato come un benefattore, un monsignore generoso che da una parte disseta gli operai sui ponteggi degli edifici in ristrutturazione e, dall’altra, allaccia rapporti con i loschi personaggi di “Cosa nostra”, accogliendo enormi cifre di denaro nei propri depositi utilizzati come una vera e propria lavanderia. Inoltre, dall’analisi dei documenti, vengono a galla scontri fra alti prelati, divisioni interne tra fedeli come la diatriba fra il segretario Narciso Bertone ed il presidente della Conferenza episcopale italiana Angelo Bagnasco relativa alla dottrina da seguire e ai rapporti con i politici.

Alcuni lamentano una sorta di “Vatileaks” all’interno delle sacre stanze. Sta di fatto che la stampa ed i telegiornali alzano il volume, attraverso una vera e propria tempesta mediatica, suscitando sempre più interesse fra un pubblico molto critico e attento.

Uno degli argomenti più lungamente dibattuti è quello relativo alle lettere segrete di Dino Boffo dopo che, su “Il Giornale” a fine agosto del 2009, veniva accusato di molestie ai danni di una persona e costretto alle dimissioni. Dopo lo scandalo, Boffo inviava a Ratzinger e al presidente della Cei, un carteggio, nel quale cercava di spiegare ciò che era accaduto, i motivi, i nomi degli esecutori e dei mandanti. La vicenda terminava con un compromesso da parte del Vaticano: Boffo nell’autunno del 2010 veniva nominato direttore di rete TV2000 e si chiudeva diplomaticamente la questione.

In effetti, nella prima missiva indirizzata direttamente a padre Georg, Boffo indicava chi sarebbero stati i responsabili, le motivazioni che avrebbero provocato tale campagna diffamatoria contro di lui e la ricerca di una soluzione mentre l’accusa cadeva sul professore Gian Maria Vian, direttore de “L’Osservatore Romano”, portando ad uno scontro  il governo italiano con la Cei. 

Il 12 gennaio fu inviata una seconda lettera al segretario di Ratzinger mentre il 1° febbraio aveva luogo l’incontro chiarificatore tra Boffo ed il giornalista Vittorio Feltri, nell’ambito del quale si facevano nuovamente allusioni su Bertone e Vian, pubblicate in seguito su “Il Foglio” da parte di Giuliano Ferrara.

Il 2 settembre 2010 Marco Travaglio scriveva a Boffo invitandolo a rompere il silenzio e a fare chiarezza, dal momento che non si era ancora a conoscenza delle due lettere precedenti e, così l’ex direttore successivamente scriveva una nuova missiva dai toni molto realistici sottolineando la situazione critica all’interno della Chiesa cattolica.

Nei capitoli successivi, Nuzzi tratta della questione economico-finanziaria il cui sistema viene definito come “La gioiosa macchina delle offerte” che, in realtà, mostra una criticità: quella di non riuscire più a macinare la quantità di denaro come avveniva in passato. Tant’è vero che l’obolo di San Pietro, e cioè l’insieme delle offerte dirette al papa da parte dei fedeli di chiese particolari, istituti, società, fondazioni e privati, nel 2010 ammontava a 67 milioni di dollari contro gli 82,5 milioni del 2009.

Crisi economica? Flussi monetari deviati? O cospicue donazioni mancanti?

E che dire del “deposito del papa”, ossia il fondo personale e segreto con somme e utili bancari che rimane a sua completa disposizione e diretta gestione, previsto ovviamente dallo statuto? In realtà, ogni donazione, nasconde una storia ed un personaggio ben preciso come le note offerte di Angelo Caloia, l’ultimo dei fedelissimi scelti da papa Wojtyla all’epoca di Ior e maxitangente Enimont con i suoi “modesti segni” da 50.000 euro l’una.

Nel giro di poco tempo finiscono tutti nel ciclone. Dal giornalista Bruno Vespa con il suo assegno di 10.000 euro a favore delle opere di papa Ratzinger alle curiose donazioni gastronomiche legate all’attività commerciale del castello Grinzane Cavour (già noto, ahimè, per una tristissima vicenda di corruzione e di finanziamenti incanalati in altri percorsi di investimento diversi da quelli stabiliti dalla Regione Piemonte), in perfetto “stile Borgia”, come i pregiati tartufi valutati 100.000 euro e salumi vari spediti successivamente alla Caritas in quanto prevista una brevissima scadenza.

Continuando con un po’ di ironia, non mancano risparmi significativi come gli 850.000 euro per la manutenzione dei giardini vaticani e i 550.000 euro per il presepe di piazza San Pietro del 2009 con la consolazione che, nel 2010, verrà a costare solamente 300.000 euro e, parlando sempre in cifre, (è risaputo che la matematica non è un’opinione), si segnala il conto corrente n. 39887 aperto nel 2007, nel quale, il papa faceva confluire il 50 per cento dei diritti d’autore ricavati dalla produzione di libri (si parla tuttora di 2,4 milioni di euro trasferiti nel 2010 alla fondazione vaticana “Joseph Ratzinger Benedetto XVI”, gemella della Stiftung tedesca con sede a Monaco di Baviera e con il conto corrente presso la Hauck&Aufhauser, una banca avente filiali in Lussemburgo, Svizzera e Germania, tra l’altro, collegate a quella del Linchestein che, oserei dire, non è poca cosa).

La cultura, per la Chiesa, ha rappresentato sempre un ottimo investimento ed il Meeting di Rimini per l’amicizia fra i popoli ne è la diretta e più eclatante dimostrazione.

Del resto, il potere rimane alle banche. Ma quali? Il mondo è in crisi mentre il conto economico del papa è in attivo. E non solo. Vi sono professori ed esperti di Cristianesimo lautamente remunerati anche se, tra i porporati, qualcuno storce il naso, dal momento che preferirebbe proporre altri candidati da far entrare nelle grazie del Santo Padre.

Purtroppo esiste ancora un pesante fardello sullo Ior con le norme antiriciclaggio e l’estromissione del presidente Gotti Tedeschi dopo la comparsa di un mostro invisibile: quello dell’esenzione della tassa sugli immobili, enti e strutture ecclesiastiche.

In effetti, nel 2006, i radicali italiani avevano coraggiosamente denunciato alla Comunità europea il privilegio che l’Italia avrebbe accordato alla Chiesa esentandola dal pagamento dell’ICI sugli edifici non utilizzati per fini religiosi ma, solamente nel 2010, l’antitrust europeo apriva una procedura a proposito, costringendo l’Italia a “battere cassa” su  importi molto consistenti. L’agenzia di stampa Ansa nel febbraio del 2012 informò di un potenziale introito che si aggira a circa due miliardi di euro all’anno.

Un altro capitolo, la cui lettura lascia molte perplessità, è quello relativo agli 007 vaticani in missione sul nostro territorio con le loro attività investigative e pedinamenti nei confronti di cittadini italiani compresi i servizi fotografici, senza che lo Stato italiano sapesse ufficialmente chi avrebbe rilasciato tali autorizzazioni e a quale scopo. Quando è noto che, in molti casi, la polizia italiana non è mai riuscita a superare il confine invalicabile delle mura leonine per procedere con le proprie indagini.

E che dire della bandiera di fortezza dello Stato pontificio? Quella issata dalle truppe papaline al tempo della presa di Porta Pia quando, nel gennaio del 2011, il principe Lillo Sforza Ruspoli, appartenente ad una famiglia aristocratica fedele al Vaticano, decise di donarla al papa con tanto di cerimonia ed onori nel mese di settembre durante il 150° dell’Unità d’Italia alla presenza di Franco Frattini, Stefania Prestigiacomo, Angelino Alfano e Pierferdinando Casini, dimenticando completamente i bersaglieri ed i fanti sabaudi che si sacrificarono per il nostro paese.

Dura prova per la Chiesa cattolico-romana sarà anche quella relativa allo scisma dei lefebvriani, dopo l’aberrante tesi negazionista sulle camere a gas, le accuse di “satanismo” ai libri di Harry Potter e la teoria che l’uragano Katrina fosse una punizione divina per l’immoralità dei cittadini che vivevano a New Orleans.

In una tale e lugubre atmosfera medievale fionda l’accusa su Tarcisio Bertone considerato responsabile del disordine nella curia romana ed incolpato di pretendere il ruolo di pontefice oltre che mirare ad una sorta di “impero sanitario” gestito in modo confessionale.

Sicuramente Opus Dei, Comunione e Liberazione, Focolarini, Legionari e quant’altro, rappresentano un’ottima strategia per l’aggregazione di fedeli permettendo la consolidazione del proprio potere nei diversi settori sociali e dell’assistenza.

Ma non solo. Giungono anche le accuse di affarismo alla corrente di pensiero del cardinal Martini da parte di un sacerdote spagnolo, il consigliere ecclesiastico dell’associazione Memores Domini, don Julian Carron, intento, da vero flagellante, a propagandare castità, povertà e obbedienza assoluta.

Tra le pagine si possono trovare ancora il caso Ruby e Berlusconi, gli appunti contro la Merkel, la descrizione delle reazioni della comunità cattolica tedesca alla vicenda Williamson, la questione del sacerdozio femminile, le preoccupazioni per la crisi economica che colpisce sempre di più i paesi di religione cattolica a favore dell’avanzamento economico della Cina come nuova potenza e la situazione problematica dell’Oriente.

E ancora, il sostegno alla Spagna contro il terrorismo, gli omicidi a sfondo sessuale, i giochi della diplomazia vaticana durante casi molto drammatici come lo è stato il rapimento dei due giornalisti svedesi in Etiopia, la cena segreta tra il pontefice ed i coniugi Napolitano nel gennaio del 2009 al fine di esercitare pressioni sul governo a causa delle vexatae quaestiones per terminare con la potente rete gestita dalla Segreteria di uno Stato teocratico nel mantenere i rapporti con il mondo intero.

Ad oggi, i nuovi indagati sono non meno di venti, tutti indiziati per la fuoriuscita di carte segrete dall’ufficio del papa e su di loro incombe anche l’ombra del tribunale ecclesiastico mentre per alcuni si attende il processo nel prossimo mese.

Nonostante ciò, una cosa è certa: vi sarà tanto di quel materiale che l’autore potrà pensare già alla pubblicazione di un terzo volume.

E la saga continua…

di Graziella Sturaro – Referente di LiberaUscita per il Piemonte

2546- R. EMILIA – L’AMM.RE DI SOSTEGNO PUO’ DARE IL CONSENSO INFORMATO

da: www.altalex.com di lunedì 13 agosto 2012

Una donna, affetta da una forma avanzata di sclerosi multipla, non risulta in grado di esprimere una propria determinazione in ordine al prospettato trattamento sanitario. L’alternativa risulta quella tra le cure palliative, ovvero le procedure invasive, quali l’intubazione meccanica.

L’amministratore di sostegno della donna propone, quindi, istanza al Giudice Tutelare del Tribunale di Reggio Emilia, chiedendo di essere autorizzato ad esprimere, nell’interesse della beneficiaria, il consenso informato per le terapie palliative.

Nel provvedimento, il Giudice rammenta che l’ordinamento giuridico, in virtù del combinato disposto dell’art. 404 c.c. con l’art. 6 della convenzione di Oviedo, ratificata con legge n. 145 del 2001, consente, quando un soggetto, per infermità psichica ovvero fisica, sia incapace di prestare il proprio consenso ai trattamenti sanitari, la nomina di un amministratore di sostegno che lo assista negli atti a cui il medesimo non sia in grado di provvedere in modo autonomo.

Il potere di esprimere il consenso alle cure mediche, nell’interesse del beneficiario, argomenta il Giudice, può essere deferito all’amministratore soltanto a seguito della ricostruzione della presumibile volontà, nonché degli intendimenti del beneficiario in relazione all’intervento proposto. Siffatto principio è stato espresso dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 21748 del 2007), chiarendo che il “consenso informato” rappresenta la base del rapporto intercorrente tra il medico ed il paziente, e rappresenta “norma di legittimazione del trattamento sanitario” che, altrimenti, sarebbe illecito.

Su tali premesse, il Giudice ha provveduto a ricostruire la volontà sul punto espressa dalla donna anni prima nella pienezza delle proprie capacità, in occasione della malattia del padre, e raccolta attraverso la testimonianza delle persone a lei vicine. Da siffatte dichiarazioni è emerso che la donna si era dichiarata contraria a qualsiasi forma di accanimento terapeutico.

Pertanto, in accoglimento dell’istanza formulata, il Giudice Tutelare ha autorizzato (con decreto del 24.07.2012) l’amministratore di sostegno, per l’ipotesi di peggioramento ulteriore delle condizioni respiratorie della beneficiaria con arresto respiratorio, ad esprimere, in nome e per conto della medesima, il consenso informato alle cure con sole terapie palliative, escludendo quindi altre cure invasive.

Laura Biarella

2547 – CANADA – LA POSIZIONE DELLA CHIESA CATTOLICA

da: World right-to-die news list del 10.8.2012 – traduzione per L.U. di Alberto Bonfiglioli

Il 7 agosto u.s. la Federazione mondiale per il diritto di morire con dignità ci ha trasmesso un interessante articolo di Eric MacDonald, della associazione canadese “Choice in Dying”, contenente una analisi ottima ma agghiacciante sulla posizione ufficiale della Chiesa Cattolica in merito alle sofferenze che i suoi fedeli in tutto il mondo sono obbligati a sopportare al termine della loro vita.

La Chiesa cattolica infatti esclude ogni possibilità di rifiuto volontario dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale nonché di respiratori meccanici, insomma qualsiasi forma di morte medicalmente assistita. Il testo del lungo articolo è consultabile su http://choiceindying.com/2012/08/07/charleston-post-and-courier-publishes-remarkably-insightful-sane-and-thoughtful-piece-on-elective-death/”.

L’analisi di MacDonald è un suo commento all’articolo di Bill Thompson Are our lives our own? The ethics of ‘elective death’ (Le nostre vite sono veramente nostre?) e al libro di Richard N. Côté “In Search of Gentle Death:The Fight for Your Right to Die With Dignity” (alla ricerca della dolce morte: la lotta per il diritto a morire con dignità).

Nel libro, l’autore scrive, fra l’altro: “negli Stati Uniti, gli ospedali cattolici non accettano i testamenti  biologici o procure legali che siano in conflitto con la teologia del Vaticano. Sono molto interessato a sapere da altri membri della “right to-die list” le loro personali esperienze con la posizione della Chiesa cattolica nei vari paesi contraria alla morte con dignità”. L’email di Côté è: dickcote@earthlink.net.

 

2548 – LE VIGNETTE DI STAINO – OSTRICHE E CHAMPAGNE

 

 

2549 LE VIGNETTE DI STAINO – I VESCOVI SI ARRABBIANO

2550 – FARMACIE CATTOLICHE

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