PRIVATIZZARE S?, MA OCCHIO AL COMANDANTE

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Per Alitalia non si tratta soltanto di decidere a chi andrà la proprietà ma come competere sul mercato aperto e liberalizzato del trasporto aereo. E risalire la china, per una compagnia che perde un milione al giorno, non sarà facile. Non con lo spauracchio delle società low cost, agili David contro l'appesantito Golia che è ormai la compagnia di bandiera; non con costi del personale largamente superiori a quelli della concorrenza; non con dipendenti che quando vogliono protestare si fingono malati per non farsi addebitare le trattenute sullo sciopero; non con lo scotto pagato negli anni per colpa di manager imposti dalla politica, che tutto hanno fatto tranne che cercare di risollevare bilanci sempre più in picchiata; non con uno Stato che perse a suo tempo l'autobus dell'Airbus europeo per puro servilismo verso l'americana Boeing. Adesso ci sono cinque competitor che vogliono assumere la gestione di Alitalia, è augurabile che sappiano ciò che si dovrà fare per uscire da questa tragica crisi. Ma più augurabile ancora è che lo sappia il governo
articolo di Giandomenico Pasquini

Una flotta di 183 aerei che operano oggi sul breve, medio e lungo raggio, 51 Paesi e 103 destinazioni raggiunte nella sua storia ma anche una crisi di risultati che oggi l’ha quasi condotta sull’orlo del fallimento. Queste sono soltanto alcune delle caratteristiche di spicco di Alitalia, ex compagnia di bandiera oggi aerolinea comunitaria, conosciuta con la sigla aeronautica Iata (organizzazione internazionale di compagnie aeree) di AZ (codice vettore di due lettere). Sullo sfondo della ben nota crisi gestionale e di risultati comincia a prendere corpo il piano di privatizzazione dell’azienda. E questo dopo la decisione del Tesoro (5 dicembre 2006) di dare ufficialmente corso all’operazione di cessione della quota di controllo detenuta nell’azienda partecipata attraverso una procedura di selezione degli advisor finanziari e legali.
 
Ripartire da zero
E se è vero che nella storia di Alitalia, nata ufficialmente nel 1947 con il primo volo inaugurale Torino-Roma-Catania, figurano risultati di tutto rispetto come i 28 milioni annui di passeggeri trasportati negli anni Novanta è anche vero che, dopo l’avvento della deregulation del trasporto aereo in Europa, ha inanellato una crisi di risultati senza precedenti. E non c’è bisogno dell’onere della prova per dimostrare che le ragioni della crisi di Alitalia sono proprio da ravvisare nella scarsa consapevolezza con cui, in quegli anni, è stato valutato in Italia l’impatto della deregolamentazione dei cieli di cui le compagnie aeree a basso costo, meglio conosciute come low cost, sono state forse uno degli effetti macroscopici ma non di certo la causa. Ed è proprio nel periodo compreso compreso tra il 1988 e il 1995 che le difficoltà di Alitalia si sono acuìte e da una compagnia aerea in difficoltà si è passati in breve tempo a una in profonda crisi di identità e sopravvivenza. Sullo sfondo il clima di deregolamentazione del settore che, dal 1993, ha visto le aerolinee europee e oltre oceano farsi concorrenza a colpi di riduzione delle tariffe ma nell’ambito di un mercato sottoposto ancora a particolari vincoli e limitazioni.
 
Privatizzazione ma non soltanto
Allo stati dei fatti il problema quindi non è più soltanto politico ma economico. In altri termini non si tratta soltanto di decidere la connotazione della proprietà o la tipologia dell’azionariato ma porre la ex compagnia di bandiera, oggi aerolinea comunitaria, in quelle ottimali condizioni di gestione che le permettano di competere su un mercato aperto e liberalizzato. Il trasporto aereo è e rimane un segmento del complesso sistema di trasferimento di persone e merci caratterizzato da elevato standard tecnologico dei mezzi utilizzati, cioè gli aeromobili, e delle annesse infrastrutture ricettive, ovvero gli aeroporti.
 
Il vero problema è quello gestionale
Per Alitalia l’annoso problema da risolvere è e continua a rimanere quello del management. E se è vero che undici sono stati gli amministratori delegati succedutisi alla plancia comandi della ex compagnia di bandiera con alterne fortune (da Bruno Velani, primo storico amministratore delegato all’ultimo, Giancarlo Cimoli, dato in uscita alla fine di febbraio con un Tfr da superenalotto, passando per nomi illustri come quelli di Cesare Romiti, Umberto Nordio, Maurizio Maspes e Luciano Sartoretti, Giovanni Bisignani, Roberto Schisano, Domenico Cempella, Francesco Mengozzi e Marco Zanichelli) è altrettanto vero che, spesso e volentieri, oltre a ricevere ottimi stipendi annui gli ex numeri uno dell’aerolinea hanno potuto contare su lussuose buonuscite. Il tutto per alcuni in assenza di risultati, magri profitti o, peggio ancora, in profondo rosso.
 
Economie di scala, produttività e occupazione
Per Michael Porter, autore del saggio “Il vantaggio competitivo”, il piano strategico di una impresa deve contenere una serie di elementi chiave che determinano il suo successo sul mercato come la valutazione analitica del settore in cui si trova a operare, le origini del vantaggio competitivo, l’analisi dei concorrenti esistenziali e potenziali, l’adozione di schemi di analisi e princìpi di comportamento strategico sulla base dei vantaggi competitivi di cui dispone l’impresa. In altri termini il successo di un’impresa non nasce a caso ma è frutto di un lavoro di coordinamento in cui le varie componenti devono lavorare a stretto contatto per garantire produzione, distribuzione dei prodotti, vendita e assistenza. E il trasporto aereo, più di quello su rotaia, per terra e per mare, basando la propria utilità e la crescita della domanda sulla rapidità di trasferimento di persone e merci, come ricordano i trattati di economia del settore e le relazioni governative, deve essere in grado di garantire sicurezza per operatori e utenti, regolarità del servizio, velocità di trasferimento corrispondente allo stadio di sviluppo tecnologico, rapida ristrutturazione in funzione delle mutazioni della domanda. Soltanto la ricetta in grado di combinare perfettamente questi ingredienti è quella vincente e permette, laddove applicata con diligenza, di realizzare economie di scala, massimizzando efficienza, produttività e occupazione. E non è cosa di poco conto.
 
La questione della flotta
Alitalia dispone di una flotta di 183 aerei operativi sul breve, medio e lungo raggio. Di questi 28 sono utilizzati sul lungo raggio e 155 sul breve e medio raggio, acquistati in parte in Europa dall’industria aeronautica Airbus e in parte da quella americana, ovvero Boeing e Douglas con evidenti ripercussioni sui costi di manutenzione e ammortamento delle macchine. Una operazione quella della diversificazione degli aerei che, unitamente ad altri aspetti negativi, ha contribuito, per logica, a far dilatare quelli di gestione. Anche quello della flotta è un problema che ritorna oggi di preponderante attualità in vista della privatizzazione non soltanto perché nel passato (fine anni Ottanta) vi sono stati esempi di discutibile gestione del comparto (vedasi alcuni casi di cessione di aeroplani con loro contestuale riacquisto in leasing) ma anche perché oggi è obiettivamente troppo eterogenea. E anche acquistare da una sola linea di produzione potrebbe rivelarsi utile per ridurre i costi di manutenzione. Magari facendo leva sulla produzione aeronautica europea (il consorzio Airbus) che non è seconda a nessuno e può rivaleggiare ad armi pari con i colossi dell’industria aeronautica statunitense (è il caso dell’A380 il più grande aereo civile mai costruito fino ad ora in grado di trasportare fino a 15mila chilometri di distanza ben 900 passeggeri, consumare tra il 15 e il 20 per cento in meno degli altri aeroplani e rispettare tutti i recenti requisiti di ecocompatibilità aeronautica). Non sarebbe male poter vedere una aerolinea europea che utilizza sul breve, medio e lungo raggio aeroplani targati made in Europe. Per questo motivo forse varrebbe la pena ripensare una nostra partecipazione in quel consorzio aeronautico Airbus che vede oggi protagonisti Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna, membri dell’Unione europea, e di cui tre, accomunati da quell’unico metro monetario che risponde al nome di euro.
 
Rilanciare il network e la collaborazione degli attori coinvolti
Rilanciare Alitalia sul mercato significa rivisitare il network, favorire sempre più un clima di collaborazione tra il personale di terra e di volo, entrambi necessari e complementari per garantire la produttività sopra i cieli e sui tavolini degli uffici dell’aerolinea dove si studiano le nuove rotte in funzione di mercati emergenti (e il caso di India e Cina), riportare l’utenza a guardare con fiducia al servizio offerto per rapporto qualità-prezzo magari anche agendo sulla politica di comunicazione. E questo non deve in alcun modo significare tagli indiscriminati ai posti di lavoro. Alitalia rappresenta un patrimonio da tutelare non soltanto perché appartiene alla storia e alla tradizione dell’Italia aeronautica, dato che dal 1947 ha contribuito a rendere famoso in tutto il mondo il made in Italy trasportando passeggeri da un punto all’altro del globo, ma anche perchè il volo, grazie a Leonardo da Vinci, lo abbiamo inventato noi e oggi più di ieri ne abbiamo bisogno per rilanciare l’economia e favorire la crescita.

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