GRAZIE OBAMA GRAZIE AMERICA PER FARCI RITROVARE UN PO’ DI FIDUCIA NELLA POSSIBILITA’ DI CAMBIARE

(5.11.08) A fine giugno, presi da altre faccende e sfiduciati dalla situazione politica, avevamo deciso di prenderci un mese sabbatico. Poi il mese, senza che quasi ce ne accorgessimo, è diventato due, tre, quattro mesi: un'assenza che quanto più si prolungava tanto più dava l'idea, anche a noi, di un addio definitivo. Certo, tante volte, spinti dalle sollecitazioni di amici, collaboratori e lettori, avevamo pensato di riprendere. Salvo fermarci, ogni volta, presi da un dubbio esistenziale: riprendere perché? A cosa può servire tenere in piedi questa modesta rivista in una situazione politica così degradata – nella quale, al di là della scelta di campo che non potremo mai rinnegare, tra destra, sinistra e centro quasi non sapremmo dire chi è il peggiore; in cui è difficile individuare qualcosa per cui valga la pena di battersi, qualcosa o qualcuno che possa indurre alla fiducia e farci tornare a sperare. Senonché quando già ci eravamo decisi, tanto per la forma, a mettere on line un breve corsivo intitolato “Commiato” sono arrivate le elezioni americane con questa grande, entusiasmante vittoria di Obama. Un evento che ci induce a pensare che se un afroamericano è potuto arrivare alla Casa Bianca allora forse tutto è possibile. Anche che l'Italia prima o poi possa diventare un paese normale.  
Articolo di Giancarlo Fornari

(Nota-6.11.08) Diversamente da quanto abbiamo scritto nell'articolo che segue, Obama non è il discendente “fisico” degli afroamericani schiavizzati. E' però il loro erede morale e la loro rivincita politica, come ha detto espressamente nel bellissimo, commovente discorso – “Se c'è qualcuno lì fuori che ancora dubita che l'America sia un posto dove tutto è possibile” – pronunciato a Chicago dopo la vittoria.
 
In queste ore di entusiasmo per le elezioni americane, che hanno spazzato via gli otto anni disastrosi della presidenza Bush, è difficile rendersi conto fino in fondo del significato epocale di questo risultato. Nel responso delle urne non c'è solo la vittoria dei democratici, che sarebbe di per sé un fatto importante ma non eclatante nella democrazia dell'alternanza americana.
Eclatante è il fatto che al vertice del partito che ha vinto queste elezioni non ci sia, per la prima volta, un WASP, un “White Anglo Saxon Protestant” alla Clinton e neppure un WASC, un “Bianco Anglo Sassone Cattolico” alla Kennedy. Non c'è un discendente degli emigrati britannici, olandesi, tedeschi che per primi misero piede nell'America del Nord e se ne impadronirono con la forza. C'è, invece, un discendente di quegli schiavi africani che in quelle stesse terre vennero deportati dopo essere stati strappati dai loro villaggi messi a ferro e fuoco dai negrieri, incatenati tra loro, quattro per metro quadrato, nelle mefitiche e buie stive dei vascelli, destinati – quelli che sopravvivevano alla fame e alle malattie dell'orribile traversata – a lavorare nelle piantagioni spinti dalle frustate dei sorveglianti e agli ordini di padroni che avevano su loro diritto di vita e di morte.
L'infame triangolazione che ha creato le risorse su cui si è fondata per secoli la prosperità delle classi borghesi e altoborghesi d'Inghilterra, Francia, Olanda e Germania partiva dalla cattura dei futuri schiavi da parte dei predoni arabi e dalla loro cessione ai proprietari delle navi negriere, che li  rivendevano nei porti americani in cambio di cotone e altri prodotti locali da scambiare, una volta in Europa, con oro, stoffe e vetri colorati che servivano ad acquistare nuovi lotti di schiavi, in modo da riavviare così un altro ciclo del proficuo commercio di carne umana.  
Un commercio protrattosi per tre secoli durante i quali si calcolano in dodici milioni gli africani  esportati nelle due Americhe: destinati a rimanere segregati e privi di ogni istruzione (c'erano addirittura sanzioni penali per i padroni che permettevano che  imparassero a leggere e scrivere) in modo da farli rimanere per sempre ai livelli più bassi della società. Gli si dava la religione dei padroni, questa sì, in modo che imparassero ad essere umili, a porgere l'altra guancia, a inginocchiarsi davanti al Dio Bianco per chiedere perdono dei loro peccati. Lo stesso Dio Bianco che per primo, e autorevolmente, aveva sancito nei Libri sacri il loro eterno destino servile. Non era stato forse Noé a scagliare questa maledizione (“Sarai per i tuoi fratelli lo schiavo degli schiavi”) contro il figlio Cam, loro antico progenitore? E allora, perché ribellarsi?

La lunga marcia verso la parificazione
La commovente vittoria di Obama conclude dunque – almeno dal punto di vista emblematico e politico – una secolare marcia di liberazione. Certo, ancora oggi la condizione sociale degli afroamericani non è neanche lontanamente paragonabile con quella dei loro concittadini bianchi. E in molti Stati del profondo sud e in molti strati popolari si deve fare i conti  con  rigurgiti di fondamentalismo e di razzismo duri a morire. L'aneddotica dello stesso Obama è piena di episodi in cui il colore della pelle gli è stato fatto pesare in maniera spregiativa: dal compagno che il primo giorno di scuola gli chiese se suo padre era un cannibale al tennista che gli disse di non toccare la lavagna dove erano scritti i nomi degli atleti: “il gesso potrebbe schiarirti la mano”, all'allenatore di basket che teorizzava “Ci sono i neri e ci sono i negri” (e lui rispose “ci sono i bianchi e ci sono i figli di puttana come te”) fino all'anziana signora che al vederlo vicino alla sua abitazione lo prese automaticamente per un ladro o alla coppia elegante – ricorda Cazzullo – che mentre lui aspettava il parcheggiatore di ritorno con la sua macchina gli tirarono le chiavi della loro, convinti che il parcheggiatore fosse lui.
Ma che questa stessa America abbia preso oggi questo giovane uomo dalla pelle scura come sua guida politica per i prossimi, certo non facili, quattro anni, è davvero il segno della fine di un'epoca. Obama cambierà la politica economica, cambierà  la politica estera e le relazioni internazionali, si affiderà al dialogo più che alla minaccia, ai diplomatici più che ai generali, alla concertazione più che alla dissuasione? Cercherà di superare l'odio di cui grazie alla sua politica imperialistica l'America è oggetto in buona parte del pianeta? Certo, ma non è questo il punto. Il punto – da segnare, come dicevano i latini, con un sassolino bianco, albo signanda lapillo – è che l'aver eletto Obama dimostra che è l'America ad essere cambiata. E il resto verrà da solo.

Italia ferma, America in movimento
A fronte di questo forte segnale di rottura con il passato dobbiamo continuare a fare i conti con un'Italia che non è capace di guardare avanti (il grembiule di nuovo a scuola è la metafora perfetta di una società che cammina con la testa voltata all'indietro) o tutt'al più rimane ferma mentre gli altri camminano.
Un'Italia che si diletta – grande stampa in testa – ad animare o commentare quel “teatrino della politica” di cui Berlusconi parla sempre con grande disprezzo, senza rendersi conto che in quel teatrino il primo figurante è proprio lui. Che sin dalla formazione di questo governo non ha perso occasione per esibire i suoi colpi di teatro, le sue uscite guittesche, come quando ha dichiarato che era stato grazie al suo intervento che Putin aveva finito la guerra con la Georgia o quando ha portato le favorite alla guida di  importanti dicasteri, con la stessa arroganza da basso impero con cui Caligola faceva senatori i suoi cavalli (ma almeno Caligola, a quanto si sa, non ci faceva sesso). O come quando ha consigliato alle precarie, per risolvere i loro problemi, di sposare un milionario –  “peccato che io abbia un solo figlio” – o nel pieno della crisi finanziaria ha invitato gli italiani a comprare azioni Eni, Enel “e Mediaset”, “che sicuramente saliranno”.
E a proposito di guardare avanti, in America da tempo il tema “Vietnam”, nonostante le ferite di quei terribili eventi siano per molti ancora aperte, ha smesso di formare oggetto di polemica politica, in Italia ministri imbecilli non trovano di meglio che disputare tra loro e con altri personaggi della loro parte politica in quale preciso livello di malvagità si sia collocato il fascismo dello scorso secolo: se sia stato “il male assoluto” o “il male relativo” o un male malaccio, sì, ma non poi tanto. E trovano modo di innescare un'altra polemica di avanguardia per stabilire se il 4 novembre – il giorno della vittoria sugli Austriaci, tutto sommato l'unica che bene o male abbiamo avuto – meriti di essere elevato a ulteriore festività della Repubblica a beneficio dei pontieri e dei fannulloni di ogni risma o invece debba essere dannato – obietta qualcuno a sinistra – come giorno rievocativo del massacro di tanti disgraziati.
Ma non c'è da stupirsi se la botte del centrodestra dà il vino che ha, e se con il suo imprinting culturale – La Russa più Borghezio più Bondi più Calderoli più Gelmini più Carfagna – produce leggi ad personam non solo per il suo padrone ma anche per  un ammazza-sentenze antimafia o una riforma scolastica scritta dal commercialista Tremonti (mentre la sua sedicente autrice dichiara, guarda tu, di “ispirarsi ad Obama”).

Da sinistra niente ossigeno
Ma come abbiamo già detto, quello che rende veramente irrespirabile l'atmosfera politica del nostro paese è che se il centrodestra è maleodorante non è che il centrosinistra sia capace di offrire una boccata di ossigeno. Dopo più di dieci anni il nuovo che c'è – al di là di un Pd, ancora purtroppo rimasto una costruzione burocratica senza un progetto e senza un'anima, in progressiva discesa di consensi – è il ritorno in primo piano del dualismo Veltroni – D'Alema. Un deja-vu stradatato, un po'  come se gli americani ci avessero proposto, invece del duello Obama – Mc Cain, la replica dello scontro Bush padre – Bill Clinton.
Lassù metabolizzano il passato, archiviano i perdenti, inventano nuovi leader, qui siamo al riuso. Non si butta nulla, De Mita dopo cent'anni di ininterrotta presenza parlamentare neppure voleva andarsene, Andreotti invece di ritirarsi a riflettere cristianamente sui fatti e misfatti della sua troppo lunga e controversa carriera politica fa mostra di sé in spot pubblicitari, convegni e trattenimenti televisivi – e che pena vederlo star male in diretta.  Vituperande canizie, come le chiamerebbe Manzoni, si mettono a nudo senza pudore sui giornali e nei talk show della sera.
Cosa rappresenti per l'Italia, in termini di moralità politica e umana, questa classe di governo, lo fanno capire a sufficienza i suggerimenti dati da Cossiga – forte dell'esperienza di ministro dell'interno all'epoca dell'assassinio di Giorgiana Masi e della strage di Bologna – per fronteggiare le agitazioni studentesche contro il decreto Gelmini. “Il ministro dell'Interno dovrebbe ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. […] Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri […] nel senso che le forze dell’ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare anche quei docenti che li fomentano […], soprattutto i docenti […] non dico quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì”.
Una sortita che ha ricevuto anche delle lodi, come espressione di un atteggiamento sinceramente spregiudicato. E viene alla mente un pensiero di Theodor Adorno – ah, i cattivi maestri del '68: “Quando si elogia la spiccata mancanza di pregiudizi di un uomo di età avanzata, bisogna intendere che la sua vita è stata un seguito di infamie”. Ma certo questa frase del filosofo tedesco non doveva riferirsi  a Kossiga.
E non parliamo di Veltroni, che veltroneggia più di prima e che anche dopo il solenne fiasco del suo “Yes, we can” non si è stancato di parlare inglese tanto che ha battezzato “You Dem” la  nuova televisione del PD, “la prima social television della politica italiana”, enfaticamente definita “un canale televisivo aperto e democratico, che rappresenterà un importante giacimento culturale per rilanciare il profilo d'innovazione del Partito". La televisione – quanto di più dinamico ci sia sul piano comunicativo – un “giacimento”? Ma giacimento di che – delle nostre speranze di vedere un leader del Pd all'altezza del suo ruolo? Ma al di là delle solite frivolezze del veltronismo restano le manifestazioni di una politica eternamente indecisa tra  le tentazioni dell'opposizione muro contro muro alla Di Pietro e quelle del “dialogo costruttivo” (che lui vorrebbe tanto ma non riesce ad avere perché Berlusconi lo irride usando la tattica di Craxi con il Pci: lo attira e quando sta per avvicinarsi lo respinge). Un Veltroni che in cambio non perde occasione per riconfermare la sua soggezione perinde ac cadaver ai diktat dei cardinali e dei teodem di cui Rutelli ha imbottito il partito, un leader così vile da vietare ai deputati Pd di partecipare al voto sull'assurda risoluzione con la quale le guardie svizzere della destra hanno deciso di trasmettere alla Corte costituzionale la sentenza della Corte d'Appello milanese sul caso Englaro accusandola di avere invaso il campo del legislatore. Un Veltroni che voleva lasciarci in eredità del suo plurimandato di sindaco di Roma, oltre alla cementificazione selvaggia di tutti gli spazi urbani ed extraurbani fatta dai suoi amici costruttori, anche un parcheggio sotto il Pincio. E che sia arrivato inaspettato Alemanno a liberarci di quell'obbrobrio fa parte davvero dell'ironia della storia.

Ma chissà che il vento del 4 novembre americano non arrivi fino da noi
E ritorniamo, ora, al grande – e anche solo un paio di anni fa non ipotizzabile –  successo di Obama. C'è qualche probabilità che possa avere un effetto propulsivo anche da noi? Una volta tanto animati da un folle ottimismo saremmo tentati di rispondere affermativamente.  
Certo l'Italia non è l'America: lontana provincia dell'impero, governata da personaggi di basso profilo, che sono evidentemente ciò che ci meritiamo – e non è poi che i Mastella e i Pecoraro Scanio fossero granché diversi da loro – dell'America non ha l'autostima, la vitalità, le infinite risorse.
La regola di Obama è che un esecutivo “non debba gestire la nostra vita ma fare quello che noi non possiamo fare da soli”. Qui al contrario gli esecutivi – “tutti” gli esecutivi, di destra o di sinistra, che si sono succeduti finora – riescono a gestire la nostra vita, naturalmente in peggio, e non riescono a fare quello che non possiamo fare da soli. Non riescono nei loro compiti fondamentali come contrastare la criminalità,  far sì che le città possano liberarsi dei loro rifiuti, organizzare la giustizia in modo che una causa possa durare meno di dieci anni, mettere in prigione (e tenerceli) i responsabili dei reati, realizzare le infrastrutture necessarie per lo sviluppo, far uscire la scuola dal suo stato comatoso. (Forse non è vero che noi italiani siamo tanto intelligenti).
E tuttavia non è detto che il vento di cambiamento che soffia sul Campidoglio americano non possa arrivare anche ai sonnolenti palazzi dove siede la classe politica più incapace, più numerosa e più pagata del mondo. Di fronte alla quale gli italiani sono sprovvisti di alcun potere così come lo sono stati i neri di fronte alle classi dominanti americane. Ma  chissà che prima o poi non arrivi anche per gli italiani il giorno della liberazione, dipende da loro. Magari noi non ci saremo. Ma in vista di quello vale forse la pena, come la vecchia talpa di Marx, di continuare a scavare.

 

 

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