C?ERA UNA VOLTA LA DEMOCRAZIA

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(17.6.08) No, non stiamo per sostenere l’oramai datata tesi secondo cui il berlusconismo è un regime antidemocratico. Discutiamo del nocciolo etimologico del “governo del popolo” e del suo essere ancora o meno, se mai lo è stato, il migliore dei mondi possibili. Anche se gli spunti del discorso ce li danno proprio gli ultimi disastrosi 60 giorni di vita politica italiana…

di Gino Nobili
 

Sono stati giorni duri, questi ultimi, per noi cittadini romani. Non avevamo finito di smaltire la rabbia per le tre ore (almeno) di fila al giorno che ci siamo dovuti sorbire grazie all’inutile vertice Fao, che ci è toccato affrontare la megaospitata di Bush & co. con il patema d’animo di venire bloccati per uno degli spostamenti a sorpresa del corteo presidenziale. Il tutto in un quadro di traffico generalmente incrementato per la decisione (la prima della nuova giunta Alemanno) di non ricorrere contro la decisione del TAR che dichiarava illegittime le strisce blu dei parcheggi (a proposito: mano alle ricevute delle vecchie multe pagate, parte una class action….).
Sia chiaro, nessuno qui è talmente egoista da non accettare anche disagi più grossi per favorire dei negoziati che azzerassero la fame nel mondo. Ma è davvero frustrante squagliarsi nel traffico pensando che è per permettere ad un (quasi ex) imperatore di giricchiare per la città eterna nelle pause delle trattative per un maggior (e maggiormente incostituzionale) impegno militare italiano sui vari fronti di questa strisciante terza guerra mondiale. O per consentire a tanti ben pasciuti signori di continuare a spendere due terzi di un bilancio pantagruelico per far funzionare la loro organizzazione che con il terzo restante “studia” il problema della fame nel mondo, quando con gli stessi soldi mangerebbero tutto l’anno alcune centinaia di milioni di persone.
 
L’informazione non c’è più e persino Contrappunti non si sente tanto bene
Avete infatti sentito, sugli organi di stampa generalisti, una qualche voce critica sulla Fao o sulla improvvida megavisita di Giorgino? No. E non ne sentirete. La mutazione dell’informazione è completata: vedrete che Berlusconi stavolta non dovrà neanche sostituire i direttori dei Tg (a meno di non dovere un posto a qualcuno), meno che meno i giornalisti. Hanno tutti capito la solfa. E tutti debbono mangiare, e pagare il mutuo, e fare il pieno. Risultato, per ascoltare una voce critica dovrete ricorrere, finché ve lo lasceranno fare, a Internet. Roba, checché se ne dica, ancora da elite ben alfabetizzata. E anche molti siti di controinformazione, Contrappunti tra questi, sono presi da una sorta di scoramento e hanno ridotto la frequenza degli aggiornamenti, ancora sotto shock per l’acquisita consapevolezza di vivere tra concittadini in maggioranza ignoranti impauriti ed egoisti, non necessariamente nell’ordine.
Il fenomeno però parte da lontano, e molti sono stati negli ultimi decenni i grilli parlanti non ascoltati. Già nelle carte di Gelli c’era scritto che occorreva prendere il controllo della televisione come premessa necessaria e anticipata della presa di potere politico. Berlusconi non ha inventato nulla: ha preso il modello americano e lo ha adattato all’Italia. Ma in America non avrebbe mai potuto né raggiungere una quota così significativa del mercato televisivo e pubblicitario, né entrare in politica senza prima cedere le aziende. In realtà neanche in Italia avrebbe potuto, in base alle leggi in vigore, ma è riuscito surrettiziamente e pazientemente – in un mix di illegalità riforme e compiacenze – a prosperare nel suo impero televisivo e ad imporre il suo modello culturale anche alla televisione pubblica. 25 anni fa, 20 anni fa, forse ancora 15 anni fa, sarebbe stato il caso di impedire tutto ciò. Adesso è tardi: sono elettori attivi e persino passivi persone che non hanno conosciuto un modello diverso, e anche se amano definirsi progressiste guardano strano, come fosse una bestia bizzarra, chiunque osi metterlo in discussione e immaginare o ricordare qualcos’altro.
Non vorrei dire istupidimento delle masse, ma questo è, e questo era nei piani della P2: se non posso portare dalla mia parte gente con uno spessore culturale e una coscienza politica, posso tentare di rimbambirli, e aspettando che gli irriducibili invecchino far si che i giovani crescano già rimbambiti. Cosicché della democrazia resti solo il suo fantasma: la dittatura della maggioranza. In altre parole: ah si, la maggioranza vince? non cambio io per conquistare una maggioranza di pensanti, cambio la maggioranza della gente in non pensanti e ne conquisto il voto populisticamente a mani basse.
Qual è il punto debole di questo ragionamento? Quello che nella dottrina cattolica si chiama libero arbitrio: non siamo tutti costretti a languire sul divano davanti alla televisione. Vi siamo solo indotti. Per cui, visto che da qualche parte dobbiamo pur cominciare a costruire una “sinistra” con valori nuovi e non legati a vecchie etichette (comunismo socialismo eccetera), e visto che da noi la sinistra non può sperare di andare al governo prima di dieci o vent’anni, cominciamo da qui: ciascuno di noi tenti di portare tutti i suoi amici non dico a leggere un libro, ma ad uscire la sera, anche solo per strada a passeggiare, ed anche e soprattutto chi ha bambini. Uno che arriva a votare con più di mezz’ora di tv al giorno di media sul groppone, totale 0,5 x 365 x 18 = 3285 ore, non può essere un buon cittadino.

La paura della microcriminalità e la scomparsa della sinistra

Detto altrove delle cause “tecniche” della sconfitta alle ultime elezioni, una tra le più rilevanti tra quelle politiche è stata la cosiddetta “questione sicurezza”. Visto Rutelli che affannosamente cercava, nelle due settimane prima del ballottaggio, di mettere sul piatto la sua presunta attenzione sul tema, chiunque poteva facilmente prevedere la sua rovinosa sconfitta: bisogna concentrarsi sui propri punti di forza, non sfidare l’avversario sul suo terreno.
Tant’è, nessuno ha neanche provato, in campagna elettorale (né i politici né figurarsi gli organi di stampa), di fornire una visione diversa delle cose.
Statistiche alla mano, infatti, nell’Italia del 2008 viviamo una delle situazioni più sicure della storia dell’umanità, almeno per quanto riguarda la probabilità di finire vittima della microcriminalità. Volete una prova? andate da un assicuratore, e chiedetegli di farvi una polizza che vi risarcisca in caso di aggressione da parte di uno zingaro o di un extracomunitario. Poi invece chiedetegli di farvene una per il caso di aggressione da parte di vostro marito: se ve la fa, ve la fa pagare decine di volte più della prima. Questo perché gli assicuratori basano le loro tariffe sul rischio specifico, non sui telegiornali.
Oggi come oggi, infatti, l’attività più pericolosa oggettivamente è stare dentro casa, seguita da andarsene in giro in macchina (patente a punti e limiti di velocità sono pura ammuina, bisognerebbe costruire reti di trasporti pubblici così buone da rendere inutile l’auto in città, fabbricare meno automobili e meno grosse e potenti, e magari dare le patenti solo a chi sa guidare – ma ciò è anticapitalista e non si può fare), e sempre più da alcuni tipi di lavori. Al quarto posto, in alcune regioni, c’è avere in qualunque modo a che fare con la criminalità organizzata. Però, nonostante questo, è stato possibile vincere libere elezioni al grido di “dagli al rumeno, allo zingaro, all’extracomunitario”, e dopo eleggere a seconda carica dello Stato uno che è stato a lungo incontrovertibilmente in affari con gente condannata in maniera definitiva per associazione mafiosa.
Questo perché la percezione di insicurezza e la reale insicurezza sono due cose diverse, e sulla prima peserà forse in qualche caso la realtà di alcune periferie difficili, ma nella stragrande maggioranza dei casi è determinante una informazione a senso unico che amplifica rovista e rimesta la cronaca nera al solo consapevole scopo di creare un senso generalizzato di paura. Se avete un parente anziano che sta sempre a casa a guardare la tv, ne avrete conferma sperimentale: non gli succede mai nulla, ma è terrorizzato per sé e per tutti i suoi cari là fuori nel mondo.
Una sinistra che avesse avuto il coraggio di dire queste cose forse avrebbe perso lo stesso, ma meno peggio di una che ha tentato di scimmiottare la destra, e comunque un’azione a lungo termine passa anche da qui: convincere la gente a spegnere la tv e uscire per strada, trovarsi tutti assieme e accorgersi che si sta benissimo. Magari non a Scampia, ma qui extracomunitari e zingari c’entrano poco, e va fatto tutto un altro discorso.
Non serve infatti neanche tentare di far passare un dato tema sui mass media: è cambiato qualcosa, infatti, da quando è diventato di moda contare ogni giorno in tv i morti sul lavoro?

La detassazione degli straordinari e le morti bianche
No, niente: più ne contiamo e più ce n’è. Ma avete sentito, al di là della contabilità e del gusto del macabro rimestìo nelle dinamiche e nel dolore dei parenti, un qualche commento sensato sulle vere e profonde cause di questa recrudescenza (questa si statisticamente significativa) di un fenomeno che sembrava essere a un certo punto solo un ricordo storico della prima rivoluzione industriale?
Le macerie della seconda guerra mondiale avevano costituito il substrato su cui si era edificato un modello sociale che davvero poteva rendere compatibile il capitalismo con il benessere di ciascuno. La cosiddetta globalizzazione ha fermato e invertito questa tendenza, così come mettere una tazza di te caldo dentro una bacinella gelata rende il tè freddo prima e più di scaldare significativamente l’acqua nella bacinella. Forse, se prima avessimo messo il tè in un termos….
Fuori metafora: senza un’azione politica precisa e concentrata sulla protezione degli standard minimi di sicurezza stabilità e durata del lavoro, il contatto del nostro mercato del lavoro con quelli di paesi al di fuori di questi standard da noi faticosamente conquistati, non poteva dare altro risultato che l’abbattimento delle conquiste. Attenzione: stiamo parlando di vita quotidiana, di diritti fondamentali della persona. Se pensate davvero che dietro tutto ciò non ci sia una strategia precisa, potete pure scrivere la letterina a Babbo Natale. L’obiettivo è farci lavorare tutti almeno 48 ore la settimana, con contratti aleatori, retribuzione bassa ed eventuale, niente previdenza sociale né sanitaria, nessuno standard di sicurezza. Non si può farlo tutto assieme, ma pian piano ci si riuscirà. Tanto quelli che hanno sperimentato il welfare prima o poi invecchiano e muoiono, e già c’è in giro gente di 35 anni che non ha mai avuto un contratto di lavoro. I ragazzi che si affacciano in età lavorativa considerano naturale non averlo e non ci aspirano nemmeno, così come chi vive in zone di mafia da sempre considera esclusa la possibilità di aprire un negozio se non vuole pagare il pizzo (è questa e non altra la causa storica della carenza di imprenditorialità nel meridione). E questo è solo l’inizio: la legge cui è stato affibbiato strumentalmente il nome di un giuslavorista progressista ammazzato dalle BR ha aperto la strada. Adesso tocca alla detassazione degli straordinari. Avete sentito qualcuno dire da qualsiasi parte che il provvedimento è come minimo contraddittorio rispetto all’esigenza di combattere il fenomeno delle morti bianche? Se io tasso meno le ore lavorate dopo l’orario legittimo, che fra parentesi sono anche quelle naturalmente meno produttive, non finisco per incentivarne il ricorso? E questo, badate bene, non vuol dire soltanto lavoratori più sfruttati specie nelle ore in cui sono più stanchi e quindi più incidenti, vuol dire anche meno nuove assunzioni.
Ora, come giudichereste voi un salariato che vota per uno schieramento che gli promette di guadagnare un euro o due in più per ogni ora di lavoro straordinario che presta, senza considerare gli effetti profondi di questa misura populista sul suo stesso futuro? Autolesionista? Stupido? Eppure gli esperti dei flussi elettorali assicurano che ce n’è stati molti…

L’abolizione dell’Ici e il federalismo
Siamo alle solite: controllare l’informazione può alla lunga rincoglionire la gente al punto da spingerla ad agire contro il loro stesso interesse immediato. Un altro esempio, sempre dall’ultima campagna elettorale: l’abolizione dell’Ici. Un paio di domande: avete sentito qualcuno sottolineare che l’Ici era l’unica imposta davvero federalista e quindi è perlomeno strano che la abolisca proprio una maggioranza con dentro i leghisti (che sono anni che ci rintronano a parlare di federalismo), peraltro promettendo di compensare i mancati introiti comunali con trasferimenti dal Centro? E conoscete qualcuno che sarebbe contento di pagare ancora quei cento o duecento euro l’anno sapendo che il notaio con la villetta ai Parioli ne paga duemila?
Nessuno: come volevasi dimostrare. L’Ici era stata di fatto tolta alla prima casa di molti di reddito medio basso già dalla vecchia maggioranza, per cui l’attuale abolizione è di fatto un provvedimento a misura di classe medio/alta: le cose sono due, o nessuno lo sapeva, o chi lo sapeva ha comunque plaudito chi gli procurava un piccolo risparmio anche se ne procurava uno più grande a chi non ne aveva bisogno. Dimenticando, però, che i soldi mancanti ai Comuni avrebbero causato problemi a servizi da questi erogati a favore di lui e degli altri bisognosi, e non certo di quelli coi soldi (che hanno la colf e non mandano i figli all’asilo nido, ad esempio…).
Cos’altro vogliamo, per ritenere dimostrato che l’homo televisivus è animale autolesionista?

La questione energetica e l’opzione nucleare
A margine del vertice Fao, il presidente iraniano Ahmadinejad, interrogato in merito al prezzo del petrolio e alla possibilità che i paesi produttori facciano qualcosa per fermarlo, ha ricordato due cosine semplici semplici: la tassazione pesa nel prezzo dei carburanti per oltre il 70%, e il prezzo del petrolio è portato su non dalla curva di domanda e offerta del bene stesso ma dalla speculazione finanziaria.
La prima cosa è forse nota ai più. Ma ciò non è stato sufficiente a che qualcuno degli schieramenti politici promettesse la riduzione anziché dell’Ici delle accise sui carburanti: accà nisciuno è fesso, e non si toccano le galline dalle uova d’oro. Ma la seconda è bellamente ignorata, o perlomeno non è mai stata riportata sui media generalista. Eppure è verissima: altrove abbiamo parlato di quanto la finanziarizzazione abbia rovinato l’economia reale, e non è il caso di tornarci qui. Ma ad occhio e croce, se non fosse possibile scambiare futures e creare derivati finanziari sugli idrocarburi, il loro prezzo sarebbe decisamente meno caro (forse non la metà, ma di certo alcune decine di punti percentuali): quando sentite dire che “gli operatori si attendono che il prezzo del petrolio superi i 200 dollari al barile entro ottobre”, quindi, non pensate a studiosi che si dilettano in vaticini, ma piuttosto a biechi figuri che scommettono su quell’aumento in parte così causandolo. I mercati finanziari funzionano così, sono il terreno principe della previsione autoadempientesi, e se non sono ingabbiati in regole ferree producono sconquassi: la penultima volta ce ne siamo accorti nel 29, l’ultima con la recente questione dei mutui subprime. Non resta che sperare che, non essendoci più da novembre un petroliere alla Casa Bianca, cambi l’atteggiamento del governo mondiale sui profitti dei petrolieri. Che sono da decenni così mostruosi da poter destinare fondi ingenti al sabotaggio dell’emersione di fonti alternative di energia. Non ci sono prove per dirlo, ma c’è da scommetterci che l’hanno fatto, e molte volte, e senza scrupoli. Tanto siamo su Internet e ce lo fanno dire. Ancora. Fra parentesi, la Robin tax tremontiana è l’ennesima boutade populistica: la tassa sui petrolieri la pagheranno di fatto i consumatori, non c’è modo di evitarlo. Per colpire i petrolieri bisognerebbe invece che i Paesi come l’Italia, che non producono petrolio, puntassero in maniera massiccia sulle fonti alternative come eolico solare idrogeno eccetera. Nucleare escluso, vediamo perché.
L’unica fonte alternativa al petrolio che si è affermata nei decenni scorsi a dispetto della lobby del petrolio è la fissione nucleare. Ma ciò non è un caso: questa tecnologia è legata allo sviluppo delle armi atomiche, e infatti solo in Paesi che dovevano trafficare con queste ultime si è in qualche modo sviluppata. Di questa affermazione, ci sono varie prove empiriche contabili e logiche:

  • negli Stati Uniti, fino a che i militari sono stati interessati alla faccenda (coprendone in parte i costi) si sono costruite centrali nucleari, da quando non lo sono più e si è lasciata la loro costruzione alla valutazione economica tout court non se ne sono fatte più (sono quasi trent’anni, ormai…);
  • in Europa, infatti, l’opzione nucleare ha avuto fortuna solo in Francia e nel blocco sovietico – e altrove solo in altre potenze militari come Israele e Cina;
  • prove a contrario sono costituite dai casi Corea del Nord e Iran, attaccati dagli americani per i loro esperimenti sull’uranio dichiaratamente a scopi civili, con l’accusa (davvero eloquente per la nostra tesi) che in realtà lo scopo vero è costruire armi atomiche;
  • senza l’opzione militare, infatti, la costruzione di una centrale nucleare non è (soltanto) una cosa antiecologica e pericolosa, è esattamente una faccenda antieconomica: il chilowattora nucleare è conveniente solo se ci limitiamo a contare tra i costi il carburante e la costruzione e il mantenimento della centrale; già se inseriamo i costi dello stoccaggio delle scorie (anche se solo per alcuni dei ventimila anni necessari, altrimenti è troppo facile) e dello smantellamento della centrale stessa (da fare entro qualche decennio dalla costruzione), il bilancio si fa negativo, figurarsi se ci mettiamo dentro i costi di gestione di quell’incidente che per quanto poco probabile ogni tanto avviene, e delle relative ricadute sul territorio e sulla salute degli abitanti (gravissime anche se vogliamo guardare solo il lato strettamente economico).

Inoltre, una centrale nucleare dal momento che si decide di farla al momento che inizia a funzionare passano almeno 10/15 anni (in Paesi dove queste cose funzionano senza intoppi), l’uranio è anch’esso una risorsa limitata e finirà pochi decenni dopo il petrolio (comunque entro la fine del secolo) anche se non si intensifica il suo sfruttamento (figurarsi se lo si fa), l’Italia non ne produce e quindi spostarsi dal petrolio all’uranio non riduce la nostra dipendenza energetica (immaginate uno scenario in cui il prezzo dell’uranio comincia a comportarsi come quello del petrolio), e il rischio sismico e la necessità di acqua dolce in grande quantità limita alle sponde del Po e poche altre le zone in cui da noi è possibile realizzare tali impianti. Infine, neanche volendo possiamo fare come i francesi, e contabilizzare parte dei costi come spese militari, perché a meno di revisione dei trattati internazionali l’Italia non può dotarsi di armi atomiche.
Eppure, nell’Italia di oggi si può dire “il petrolio costa caro, quindi torna conveniente tornare al nucleare”, e dirlo di continuo, a reti unificate, col tono in cui si affermano le ovvietà, senza che nessuno che pensi il contrario venga invitato in trasmissione (nemmeno se si chiama Rubbia, ha vinto il Nobel per la fisica, e sta per vendere agli spagnoli una tecnologia solare redditizia che l’Italia non gli ha comprato…), ed evidentemente senza che a nessuno o quasi si torcano le budella e spenga il televisore.
E’ vero che siamo il Paese in cui il debito pubblico (e l’odio per i pochi politici che si siano posti il problema di ridurlo) è percentualmente maggiore, così dimostrando il disinteresse per le generazioni future, ma essere così short-minded da non immaginare le scorie nucleari stoccate accanto all’immondizia campana vicino a una falda acquifera è forse troppo. Come troppa davvero è l’ingenuità di chi non vuole vedere che dietro tali iniziative mediatiche e industriali non vi sia che l’interesse privato di chi deve aggiudicarsi da un lato gli appalti e dall’altro le tangenti oggi, a prescindere se poi il manufatto renda o meno un euro di utilità pubblica domani.
E’ la stessa logica che sta dietro il rilancio di “grandi opere” come il Ponte sullo Stretto (di cui abbiamo già parlato troppo), inutili se non a chi deve guadagnarci direttamente (appalti e subappalti) o indirettamente (passare alla Storia, dichiaratamente, e fare un favore agli amici degli amici), indipendentemente dalla loro effettiva realizzazione durata e redditività.

La questione ecologica e i termovalorizzatori
Il problema centrali nucleari è lo stesso di tutte le problematiche ecologiche: se ne parla troppo, anche da parte degli stessi ecologisti, come di questioni romantiche di difesa della Terra o semplicemente del territorio. Sarebbe invece stato opportuno, e non è mai troppo tardi, fare pressioni a che tutte le legislazioni dei paesi sviluppati fossero state aggiornate in modo da costringere chiunque intraprenda qualunque cosa a considerare tutti i costi prima di poter giudicare redditizia un’impresa.
Se, ad esempio, le multinazionali del tabacco fossero costrette a pagare le spese mediche a tutti i fumatori, pensate che la fabbricazione di sigarette continuerebbe? o non sarebbero invece costrette a utilizzare i peraltro ingentissimi profitti accumulati per riconvertirsi? Credete che le bottiglie a perdere, di plastica o vetro che siano, sarebbero mai diventate competitive se il costo del loro smaltimento fosse stato a carico di chi le vende? o non pensate invece che in questo caso non si sarebbe mai smesso di vendere coi vuoti a rendere?
La questione rifiuti, nel suo complesso, è una conseguenza diretta del consumismo. Senza voler allargare troppo il discorso (dicendo ad esempio che a Parigi non esistono centri commerciali…), solo adesso, sotto la spinta del calo della domanda conseguente alla riduzione dei redditi reali, si stanno cominciando a vendere detersivi, acqua e latte alla spina. Ma negli ultimi decenni la moltiplicazione degli involucri è stata la causa prima dell’aumento della massa dei rifiuti domestici. Dovrebbero o no pagarne in parte il fio i produttori? Ancora negli anni sessanta, i rifiuti di ogni famiglia erano talmente pochi che gli spazzini (ancora non “operatori ecologici”) passavano porta a porta, e non c’erano fuori né cassonetti né cumuli di immondizia. E’ vero che sono aumentati i consumi, ma compensano abbondantemente questo fattore sia la diminuzione dell’entità numerica media delle famiglie sia lo sviluppo tecnologico, per cui non dovrebbe essere impossibile (e infatti si comincia a fare) tornare alla raccolta differenziata vera, quella fatta casa per casa. A valle della quale, è possibile organizzare il trattamento dei rifiuti in maniera da ridurre al minimo la necessità di impianti aggressivi per l’ambiente come le megadiscariche e i termovalorizzatori. Solo allora è possibile il pugno duro contro chi si oppone alla loro costruzione in nome del NIMY, felice acronimo anglosassone che sta per Not In My Yard – dove volete ma Non Nel Mio Cortile. E questo anche senza voler rendere conto dell’afflusso di rifiuti tossici prodotti da imprenditori padani nelle discariche abusive campane con la complicità della camorra, per citare il Presidente Napolitano in una delle poche frasi in cui è sembrato scuotersi dal torpore acquiescente che caratterizza il suo mandato.
Invece così se nasce il sospetto che la costruzione degli inceneritori (diamo il loro nome alle cose, please) sia un bisinissi così buono da passare sopra alla salute della popolazione, non dobbiamo stupirci. Semmai, dobbiamo stupirci se nasce nella mente di pochi, mentre gli altri si fanno incantare dalle chiacchiere decisioniste, salvo poi risvegliarsi quando quelli cui hai appena dato il voto ti mandano contro la polizia a manganellarti…

Il divieto di intercettazioni e la giustizia in generale

Ai tanti commentatori anche vicini al pidì che rimarcano la cifra differente di questo governo Berlusconi rispetto al quinquennio precedente, quasi rivendicando un inspiegabile merito della cosa, risponde impietosamente la cronaca dei fatti: accanto a una serie di provvedimenti demagogici e di nessuna utilità reale, perlomeno per i “sudditi” (come i 2500 soldati da dislocare nei centri urbani, troppo pochi per fare qualcosa, troppi per la legittimità democratica, giusti solo per gettare fumo negli occhi degli ossessionati dalla sicurezza), il Caimano sta facendo passare indisturbatamente alcuni sapienti interventi che completeranno il quadro di impunità che si sta costruendo attorno dal 1993.
Il più eclatante è una serie di misure che di fatto si concretano nel divieto di fare e di pubblicare le intercettazioni telefoniche. Dopo avere addirittura tentato di infilarle in un decreto legge, per poi balbettare di un errore formale a mò di scusa, ne ha fatto un disegno di legge che, vedrete, passerà a maggioranza bulgara: addirittura, è alla Lega che sono ridotti a guardare quelli che si illudono ancora di vivere nella legalità, perché almeno per il reato di corruzione sia ancora possibile per i giudici ricorrere a questo indispensabile strumento, e per i cittadini venire a sapere con chi cavolo hanno a che fare.
A pensarci bene, senza le intercettazioni non avremmo avuto né Moggiopoli due anni fa né Tangentopoli sedici. Ma spuntare le armi ai giudici, prima di assoggettarli definitivamente con la separazione delle carriere prossima ventura, non è la disgrazia maggiore: quella è l’imbavagliamento dei giornalisti. Il decreto, infatti, a leggerlo bene, si sostanzia in un vero e proprio divieto di cronaca giudiziaria. Ma un conto è la responsabilità penale, da dimostrare in tre gradi di procedimento, un conto è la responsabilità politica, di cui la libertà di stampa è il cane da guardia. Se non potremo più venire a conoscenza delle pastette, come potremo decidere chi è indegno di rappresentarci?
A pensarci meglio, però, quest’ultima analisi è sbagliata: gli italiani sono venuti a conoscenza, ad esempio, che il candidato premier del centrodestra brigava con un pezzo grosso della Rai, peraltro il maggiore concorrente della sua attività di imprenditore, addirittura usando come merce di scambio le grazie di giovani ambiziose donzelle. In qualsiasi paese democratico del pianeta, questo avrebbe significato la fine della sua carriera politica. In Italia subito dopo ha stravinto le elezioni.

Conclusioni: l’illusione democratica e il futuro che ci attende
Forse allora è proprio il caso di ripensare le etichette che diamo alle categorie di pensiero della politica. Sappiamo tutti che la democrazia non è mai stata il governo del popolo, come suggerirebbe la sua etimologia.
Il grande sforzo del movimento socialista non è stato democratico ma culturale: la coscienza di classe interveniva a sopperire laddove l’auspicata crescita individuale non bastava, perché il proletario non aveva tempo di leggere e studiare. Ma le lotte per la riduzione dell’orario di lavoro erano soprattutto lotte per la libertà dal bisogno: se hai la pancia piena e abbastanza energie da spendere finito il tuo tempo di lavoro, allora sei libero. Altrimenti, qualunque sia il modo in cui ti chiamano, sei uno schiavo, e allora che tu abbia il diritto di voto è inutile se non pericoloso, specie se non sei almeno consapevole di esserlo e quindi non aspiri a liberarti, a crescere culturalmente, ma solo a crogiolarti nel “divertente” porcile che ti hanno fabbricato attorno.
Chi non sa, non è libero. E può votare con entusiasmo chi agisce contro il suo interesse. E’ questo che è successo negli ultimi quindici anni, niente di meno. E la tendenza è lungi dall’invertirsi: assisteremo allo smantellamento dei contratti collettivi di lavoro e della previdenza sociale, le persone lavoreranno sempre più ore al giorno e giorni all’anno, sempre sotto il ricatto del mancato rinnovo del contratto a tempo determinato, senza nessuna speranza di avere a un certo punto diritto alla pensione, per una paga che basterà a stento per la sussistenza e mai per fare progetti, con una tv accesa ad attenderli come unico relax perché per strada è pericoloso, e senza la minima autocoscienza di essere di fatto degli schiavi stupidi incapaci di formarsi autonomamente un’opinione.
I pochi di noi che si rammenteranno di un sistema bilanciato di poteri che a un certo punto, sulle macerie di una guerra, sembrò prendere piede, sostenuto dalla crescita di ciascuno dei suoi cittadini “senza distinzione di razza credo o opinione”, quella cosa che avevamo chiamato democrazia e forse invece era qualcos’altro di cui il suffragio universale era corollario e non premessa, quei pochi di noi invecchieranno se va bene dimenticati se no neutralizzati o irrisi. Mentre gli altri continueranno a cedere quote della loro libertà personale a tiranni senza scrupoli in cambio di provvedimenti illusori che leniscano la loro paura. Fino a che l’inevitabile scontro con i quattro quinti affamati del globo non li declasserà – e giustamente – al rango di cibo (è una metafora forte? meglio dire allora che ci sarà una guerra mondiale e noi la perderemo?), e forse allora ci sarà di nuovo spazio per pensare a qualcosa. Ma non saremo noi a farlo, e sarà qualcosa di molto diverso da quanto noi possiamo immaginare. E, per citare Francesco Guccini, che in questi giorni compie 68 anni, “noi non ci saremo”.

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