2029, ANNUS HORRIBILIS?

un grafico di borsa

Specie in occasione di crack finanziari come quello che stiamo vivendo in questi mesi, noi poveri mortali ci chiediamo a cosa servono, e come funzionano, i Mercati Finanziari. Tutti i giornali e i notiziari riferiscono di una crisi che non si sa da dove venga e soprattutto a cosa possa portare, ma ci riguarda? Ci conviene tentare di capirci qualcosa? E se volessimo farlo, da dove cominciare? Gino Nobili prova a muoversi sul filo del rasoio della semplificazione passando dalla finanza all’economia reale, per giungere a quello che forse è il vero nocciolo del problema: il modello di sviluppo cui sono informate le nostre società regge ancora?

di Gino Nobili

Le borse. Si, sappiamo che lì dentro i soldi girano vorticosamente, e ogni tanto un nostro amico ha pure tentato di convincerci ad arrischiarvi i nostri risparmi, lui che da quando c’è Internet non dorme la notte per giocare sulla Borsa di Tokio, ma in fondo non ci capiamo molto. Com’è possibile che sembrino per anni il pozzo di San Patrizio per poi assumere le sembianze di veri e propri buchi neri? Forse, per comprendere, è necessario tornare al nocciolo del loro funzionamento e anzi della loro ragione di essere.

Facciamo un esercizio: immaginiamoci nei panni di chi ha un’attività che cresce, quindi cerca dei soci per farla crescere ancora; perché a un certo punto ci dovrebbe venire in mente di “quotarla” in borsa? Beh, se ci vogliamo espandere e i soci non hanno più soldi da investire, si può prenderli in prestito dalle banche, ma poi quelle li vogliono indietro in tempi precisi e con gli interessi. Allora dividiamo la proprietà in tante piccole parti (le “azioni”) e, trattenendone per noi abbastanza da continuare a comandare, le mettiamo sul mercato finanziario: in pratica ci facciamo dare i soldi dai risparmiatori direttamente, senza la mediazione della banca che deve essere retribuita. Messa così si capisce bene anche la funzione sociale positiva dei mercati finanziari: mettere in contatto diretto risparmiatori e investitori. Ma si deducono bene altre due cose:
  1. chi ha le risorse per crescere senza i soldi degli altri, e non vuole rischiare di perdere il controllo della propria società, in borsa non si quota;
  2. i soldi che girano in complesso nei mercati azionari dovrebbero corrispondere più o meno al valore effettivo nell’economia reale del complesso delle società quotate.

I tecnici perdonino l’estrema semplificazione, ma da qui non si esce: nel lungo periodo l’economia finanziaria non può non rappresentare in sostanza l’andamento di quella reale, da cui però ha continui scostamenti piccoli e medi, più o meno bruschi (come nell’immagine sotto al titolo), che seguono logiche proprie interne al mercato finanziario. Dall’interno di queste logiche, nel breve e medio periodo, è difficile (e se ci si è dentro fino al collo, impossibile) riconoscere l’andamento di lungo periodo e il suo collegamento all’economia reale. Ma ciò agli operatori di quel mercato interessa poco: è proprio da quei (micro/medi) scostamenti che nascono i guadagni e spesso le ingenti fortune, e poco importa sapere che nel lungo periodo l’affare è a somma zero e quindi qualcuno deve averci rimesso, se questo non sei tu. Infatti normalmente è la massa dei piccoli risparmiatori, non a caso detta in gergo “parco buoi”, che finanzia il giocattolo; a questi andrebbe detto (se chi dovesse farlo non facesse parte del gioco) chiaramente: occhio che se lasciate dei soldi lì fermi da qualche parte per molto tempo (se cioè non fate come quel mio amico che non dorme la notte per vendere e comprare di continuo), ci guadagnerete solo se avete la fortuna di beccare uno di quei periodi in cui il mercato finanziario nel suo complesso cresce più dell’economia reale. Uno di quei periodi che di solito, però, se la forbice è esagerata, finiscono con un crac: come quello in cronaca, o quello della new economy di qualche anno addietro, o prima quello dell’ottobre 87, o prima ancora quello famosissimo del 1929. In questi crolli però capita anche che ci rimettano anche i pesci “medi” e quelli “grossi”, e può capitare che il contraccolpo giunga anche all’economia reale.

STANLIO E OLLIO
La Grande Depressione Mondiale innescata dal crollo di Wall Street nel 1929, infatti, ce la ricordiamo tutti, non foss’altro per l’immensa letteratura che ha generato: basta infatti uno qualsiasi dei film che hanno sullo sfondo quell’epoca, come quella comica in cui i “borghesi” Stanlio e Ollio erano ridotti a cercare di campare suonando sui marciapiedi innevati. Ebbene, la crisi venne dopo un decennio di “ubriacatura” finanziaria, in tempi in cui vigeva la stretta “base aurea” della moneta e regnava la Legge del Mercato nella sua formulazione assoluta secondo cui se questo fosse stato lasciato libero avrebbe trovato prima o poi il suo equilibrio di piena occupazione. E’ questo il motivo per cui quel crollo finanziario si propagò all’economia reale, mentre invece i crolli finanziari successivi (alcuni dei quali di proporzioni simili) vengono “schermati” dalle autorità monetarie prima che si possa ripetere il fenomeno: è questo che sta succedendo, esattamente, in questa fase.
Fed e in minor misura Bce, infatti, hanno manovrato i tassi e immesso nel sistema bancario denaro fresco, così da evitare che chi sia in possesso della marea di titoli dalla dubbia riscuotibilità rischi di fallire per insolvibilità, e i fallimenti a catena portino a una crisi occupazionale e quindi dell’economia reale, com’è successo nel 1929. Il loro margine di manovra non è infinito (molti osservatori liberali non hanno mancato di farlo notare), ma è ragionevolmente probabile che gli attori del sistema sappiano oramai bene come e perché non bisogna far rompere il giocattolo, per poter continuare a giocare. E quindi terranno i mercati finanziari sotto tutela per un po’, per poi poterli rilasciare a quelle fluttuazioni senza le quali non esisterebbero (perché nessuno vi si arricchirebbe). Il ribasso finirà quando gli speculatori avranno fatto incetta di titoli (e aziende, e immobili) a prezzi stracciati, e i piccoli risparmiatori avranno pagato il solito conto, unitamente (stavolta che la bolla era di natura immobiliare) agli incauti sottoscrittori di mutui sub-prime che ci avranno rimesso i risparmi e la casa.
Chi vuole una prova può farsi un giro in un qualsiasi centro storico per capire di chi è la proprietà degli immobili più prestigiosi, nella stragrande maggioranza dei casi: la risposta gli dirà quante volte negli ultimi secoli questa strategia ha rimpinguato i patrimoni edilizi di banche e assicurazioni.
Funziona così, un po’ come il doping nel ciclismo: mercati finanziari in crescita attirano con i guadagni che offrono nuovi operatori, che cercando a loro volta di guadagnare alimentano la crescita, e così via fino a che, avvicinandosi man mano il punto di allontanamento critico dall’economia reale, tutti cercano di inventarsi qualche altra cosa che possa alimentare il trend. Stavolta è stata la volta dei titoli immobiliari americani: facendo leva su un bisogno primario, sono stati attirati da tassi bassissimi ad accedere a risorse finanziarie persone che un sistema sano avrebbe respinto per potenziale insolvenza. Si trattava però di prestiti praticamente senza interessi, garantiti da ipoteche di beni sovrastimati (il sotterfugio più usato per ottenere di fatto un finanziamento al 100% del valore dell’immobile), e difficilmente giustificabili dagli istituti di credito che li avevano concessi; questi allora li hanno impacchettati in titoli e impacchettato quei titoli in obbligazioni, e così via fino a riempire il mercato finanziario americano di qualcosa come ventimila miliardi di dollari di titoli di dubbia riscuotiblità.
In questi casi, è solo questione di tempo che la cosa venga fuori e i mercati vadano a picco, ma a ribasso finito il rimbalzo porta di nuovo l’economia finanziaria a oscillare intorno all’andamento dell’economia reale: l’abbiamo già detto, di qui non si scappa. A meno che…

TEMPI MODERNI
Il capitalismo ha dimostrato di essere capace di autoriformarsi. Di più: se non lo avesse dimostrato non avrebbe vinto la sua guerra sulle altre due forme di organizzazione sistemica delle società di massa protagoniste del secolo scorso, il fascismo e il comunismo. E infatti l’organizzazione tayloristica del lavoro, basata sullo sfruttamento di un proletariato tenuto al livello di sussistenza, così ben rappresentata da Charlie Chaplin, è stata sostituita dalla società dei consumi, che ha barattato l’innalzamento delle condizioni materiali del popolo con la sostituzione dell’equilibrio statico del liberalismo classico con quello dinamico del capitalismo contemporaneo. L’innesco è ancora l’America del 1929, e la ricetta keynesiana di iniettare l’espansione a partire dall’economia reale, espansa poi alla zona di influenza Usa alla fine della guerra mondiale, e poi al resto del mondo (quasi) alla fine della guerra fredda. Sempre con semplificazione estrema, come una bicicletta non sta in piedi da sola a meno che non cammini, il nostro sistema economico non sta in piedi se non cresce. Infatti ragioniamo tutti in termini di “crescita del PIL”: se si avvicina allo zero, significa che il totale del valore di tutti i beni prodotti e scambiati nel Paese quest’anno è stato uguale all’anno scorso. Se in famiglia non sono cresciute le bocche da sfamare, e i soldi guadagnati sono gli stessi dell’anno scorso, non è un dramma, no? Invece per il sistema-PIL si: se solo la crescita è inferiore alla media di quanto crescono gli altri Paesi del club dei Ricchi, ci si strappa le vesti. Perché?
Prima di rispondere sulle cause, cominciamo dal vedere le conseguenze:

  • il mondo è uno, e quindi la sua ricchezza globale è pari a quanto prodotto e scambiato da ciascuna delle persone in grado di lavorare (gli altri sono “a carico”), moltiplicato il fattore tecnologico, che però ha pure dei costi per essere sviluppato: la soluzione potrebbe essere una forte accelerazione di ricerca&sviluppo nel campo dell’energia solare, ma (a parte che bisognerebbe comunque stare attenti al modello di sviluppo) la lobby petrolifera negli ultimi decenni è passata dal semplice pesante condizionamento dei governi alla diretta installazione di suoi esponenti nei posti chiave del potere politico, a cominciare da quello di Capo dell’Impero, e la loro strategia è chiaramente il controllo per via bellica delle ultime fonti di petrolio e uranio (che non lo dice nessuno ma sta finendo pure quello), altro che sviluppo tecnologico!
  • ne deriva che la ricchezza del pianeta negli ultimi trent’anni, non essendoci stati salti significativi nella tecnologia che abbiano portato a un rapporto significativamente diverso tra materie prime sfruttabili e produzione, è aumentata in termini reali (di 6 volte dal 1950 al 1998, secondo l’United Nations Development Program) solo per effetto dell’aumento della popolazione in età lavorativa (ma è aumentata ancora di più quella in età non lavorativa, cioè le bocche da sfamare, e di conseguenza è entrato in crisi il concetto di età lavorativa affermatosi con la rivoluzione industriale e le lotte sindacali, che tra posticipi dell’età pensionabile e lavoro minorile sta lentamente tornando a quello che era nella società preindustriale e protoindustriale) e del tasso di sfruttamento delle risorse naturali, che in molti casi (legname e petrolio, acqua e aria, per dire dei più eclatanti) lasciano già intravedere il fondo del barile;
  • ne consegue che l’aumento della ricchezza totale del Club dei Ricchi è avvenuto in buona parte a scapito della ricchezza totale degli Esclusi. L’affermazione sembra forte e ingenua, ma è dimostrata dalle statistiche ufficiali che parlano di una forbice via via ampliatesi negli ultimi decenni: sempre secondo l’UNDP, la differenza tra il reddito del miliardo di persone più ricche e quello del miliardo di persone più povere era nel 1960 di 30 a 1, nel 1990 di 150 a 1. Il che dimostra che, visto che la ricchezza nel complesso è aumentata solo di 6 volte, i poveri del pianeta oggi se non sono più poveri dei loro padri anche in valore assoluto poco ci manca, con buona pace di chi pensa che lo sviluppo pur aumentando le disuguaglianze abbia aumentato anche il livello di vita di chi sta peggio. Per cui chi dice che la globalizzazione è la continuazione del colonialismo con un’altra etichetta forse si esprime in maniera grossolana ma non sbaglia: del colonialismo, infatti, sono state dismesse di fatto solo le spoglie ideologiche, sostituendo i governatori con governi solo formalmente indipendenti, ma il “primo mondo” non ha mai smesso di considerare i mondi dietro di lui in classifica come serbatoi di materie prime e manodopera a basso costo, né l’opzione militare (diretta o indiretta) tra le prime per assicurarsi il controllo. Per non parlare del cappio al collo rappresentato dai finanziamenti allo sviluppo dell’FMI e della Banca mondiale, infatti, se guardiamo bene, il persistente sottosviluppo di vastissime zone di Africa, medio oriente, e parte dell’America latina, ha tra le cause di insorgenza il colonialismo storico, dove ha creato Stati prescindendo dalle nazionalità e vi ha messo a capo personaggi compiacenti e complici nello sfruttamento delle materie prime (regimi che con microvariazioni ininfluenti dal punto di vista delle cause sono in gran parte dei casi ancora là, a prendersi i soldi dalle multinazionali e degli aiuti senza redistribuire niente ai loro sudditi) e il neocolonialismo bellico tra le cause di permanenza e rifiorescenza, come nel caso dell’integralismo islamico (figlio non voluto delle politiche occidentali verso il mondo arabo, con esempio lampante in Palestina);
  • inoltre, la libera circolazione mondiale dei capitali e delle merci, che è stata di certo forse il fattore più rilevante di moltiplicazione della ricchezza, la celebriamo come Globalizzazione in quanto si è portata dietro quella delle idee e delle notizie, ma ci piace meno quando si porta dietro quella del lavoro (eppure che le cose fossero collegate lo teorizzò per primo un economista liberale, Ricardo, e non Marx…), perché ha la forma di poveri disperati che la miseria rende maggiormente disponibili al microcrimine. Questo evento epocale, inoltre, anzichè essere responsabilmente governato in modo da realizzare il suo scopo salvifico nei confronti dei sistemi economici dei Paesi d'origine come dei Paesi ospitanti (ma tanto, prima o poi dovremo arrenderci all'idea che se vogliamo una pensione dobbiamo aumentare e di molto l'immigrazione regolare), viene cavalcato nelle sue manifestazioni peggiori da partiti e governi che hanno fatto della Cronaca Nera uno strumento di Potere;
  • infine, la vittoria sui sistemi alternativi aveva come scopo e ha avuto come effetto la loro inclusione, col risultato che il Club adesso comprende l’Est europeo, la Russia, l’India e la Cina, che una volta adottato il nostro sistema hanno preso a crescere secondo le esigenze e nella misura consentita dalla loro enorme popolazione: La cosa fa piacere, è un loro diritto, ma purtroppo il nostro pianeta non è in grado di reggere lo shock: applicare (e ancora non del tutto) a miliardi di persone un modello di sviluppo usato finora solo da alcune centinaia di milioni, in mancanza di un salto tecnologico (ribadisco: i “progressi” negli ultimi trent’anni – in testa la “rivoluzione informatica” – non hanno riguardato “cose” ma “servizi”, che in definitiva non creano ricchezza ma ridistribuiscono ricchezza creata altrove), ha aumentato in pochi anni in maniera iperbolica il tasso di sfruttamento delle risorse del pianeta;
  • ma le risorse del pianeta è oramai evidente che mostreranno la corda anche assai prima che i parvenu del Club riescano a portare i loro consumatori al livello di quelli dei membri storici, pure se questi rallentano come hanno fatto negli ultimi anni. E infatti i più insicuri (un tempo si sarebbe detto i “reazionari”) sono lì che abbaiano al “pericolo giallo”, non riconoscendo a quella gente il diritto di trattare gli altri e il mondo come prima abbiamo fatto noi. Il punto è questo: non è possibile, senza essere disposti ad un’opzione militare dai facilmente immaginabili risvolti apocalittici, fermare questo percorso! L’unica possibilità reale che ha il mondo occidentale è iniziare, per primo, a percorrere una nuova strada, sperando di avere ancora una massa critica rispetto al “sistema/mondo” tale da indurre per questa via anche gli altri. In altri termini, dobbiamo smettere prima noi di pensare in termini di crescita “a guida finanziaria”, e cominciare a pensare il mondo in termini di sistema: le risorse non sono infinite, la popolazione deve essere mantenuta stabile, devono essere adottati modelli di produzione e consumo compatibili con le risorse, e devono essere fatti enormi (adesso sono risibili) investimenti nella ricerca energetica in modo da affrancare le nostre economie dal petrolio. Se lo adottiamo noi oggi, questo nuovo modello, abbiamo forse ancora l’autorità (leggi, il potere di ricatto) di proporlo a India e Cina, e poi agli altri. È un’utopia? forse, ma l’alternativa è l’estinzione. Che magari fosse istantanea, poi!: in scarsità di risorse, prima verrebbe un periodo di guerre (verrebbe? è già iniziato!).

PROFONDO ROSSO
Viste le conseguenze della “tirannia del PIL”, veniamo alle sue cause. Se il mercato finanziario nel lungo periodo non può non riflettere l’andamento dell’economia reale, e questa non cresce o decresce, anche l’andamento finanziario avrà le sue oscillazioni di breve e medio periodo attorno a una tendenza di lungo periodo costante o decrescente. Della cosa non potrebbero non accorgersi tutti gli agenti del sistema (analisti, operatori, risparmiatori), per quanto la loro posizione interna non gli consenta visioni d’insieme (certe cose non si vedono da dentro, e neanche da vicino: quella che col naso incollato alla tela pare una macchia di colore, allontanandosi si capisce che è un quadro, poi che si tratta di un quadro impressionista, e solo alla fine che è il “dejeneur sur l’erbe”!). Ergo, senza la condanna alla crescita il castello di carte dell’economia finanziaria si avvierebbe alla crisi definitiva, e con esso il sistema capitalistico occidentale contemporaneo, così poco legato oramai all’economia reale. Attenzione: che non si tratti di una previsione apocalittica ma di una possibilità concreta e reale è dimostrato proprio dallo stesso orientamento delle politiche economiche occidentali, e da quando precipitosamente e onerosamente si affannino in questi giorni a tamponare i danni delle crisi finanziarie. Un momento: tamponano i danni, guardano alla crescita, qual è allora il problema?
Se le risorse del pianeta fossero tali da consentire l’applicazione senza drammi del nostro modello di sviluppo ai Paesi emergenti, sarebbe ancora vero l’assunto neoliberista per cui solo la crescita può assicurare il progresso delle condizioni materiali degli attuali diseredati. Ma le risorse ambientali sono sull’orlo del collasso, e quindi delle due l’una: o troviamo un nuovo moltiplicatore tecnologico che consenta la creazione di maggiore ricchezza a parità di risorse (abbandonando l’economia del petrolio), o cerchiamo un modello economico che contempli un equilibrio possibile senza la crescita del PIL. Ma come attuare il primo scenario, in tempi in cui l’Imperatore è un petroliere americano, il suo Nemico/Amico un petroliere saudita, e tutta l’economia crollerebbe come due famosi grattacieli, per implosione, se solo fossimo in grado di toccare sul serio gli interessi delle “sette sorelle” di matteiana memoria? Anche la seconda strada è difficile da percorrere, si, ma se fosse intrapresa favorirebbe poi l’avvio della prima, e inoltre si tratta di un percorso in cui ciascuno di noi può già fare qualcosa.
La finitezza delle risorse del Pianeta, infatti, si è resa evidente dopo che Paesi con miliardi di persone sono stati spinti ad adottare il modello di sviluppo che era stato proprio fino ad ora solo di poche centinaia di milioni. Le persone comuni cominciano ad accorgersene per via dei riflessi sul clima, e quando si avvertono i primi sintomi della scarsità d’acqua, e quando si deve “fare un mutuo” per il pieno alla macchina. Ma evidentemente non è abbastanza perché, in considerazione dei loro veri (e non immediati) interessi, eleggano dappertutto rappresentanti sensibili alla questione: insomma, il protocollo di Kyoto è poca cosa, eppure lo hanno firmato paesi emergenti come Russia, India, Cina e Brasile, ma non paesi ricchi come Australia e Usa, questi ultimi da soli responsabili del 36% delle emissioni di CO2, della cui riduzione il protocollo si occupa, e in Italia l’adesione fu messa in discussione dal governo Berlusconi (ascaro di Bush e prossimo a tornare in sella). Gli statunitensi, inoltre, sono da soli la metà del problema: sono il 5% della popolazione mondiale e consumano circa il 30% delle risorse e delle riserve del pianeta (in particolare il 43% del carburante), e i loro capi di fronte alla incipiente crisi non solo non sottoscrivono i protocolli moralizzatori, ma intraprendono strategie aggressive: militari per accaparrarsi il controllo di giacimenti – diretto (Iraq) o indiretto (Afghanistan), e tecnologiche per finire di spremere il limone/Terra (leggi OGM e biocarburanti). Ma se l’Europa si opponesse fermamente a questa politica adottandone una di segno opposto, oggi avrebbe forse (ancora e già) il peso sufficiente per confrontarsi con gli Usa, e magari innescare nei circuiti mentali di abbastanza americani il dubbio che forse è ora di cambiare questa sventurata leadership. Ma bisognerebbe cominciare subito, e purtroppo non provengono dall’UE segnali positivi in questo senso.
L’alternativa è la morte di fame e di sete, prima di gente lontana da noi e dai nostri pilotati TG, poi però di gente sempre più vicina e disperata: l’agricoltura non può, neanche volendo, ottenere più cibo per tutti, anche se smettiamo di nutrire tutte le troppe mucche che vogliamo mangiare, anche se rinunciamo a coltivare cereali per l’assurdità ecologica che abbiamo la faccia tosta di chiamare “bio”diesel, e anche se la ricerca sugli OGM facesse miracoli (intanto fa danni irreparabili in un sistema di cui la scienza attuale non riesce nemmeno a immaginare tutte le variabili, figurarsi a tenerne conto) – al massimo riuscirebbe, nel tentativo, ad esaurire i terreni non ancora coltivati, finire di depauperare a forza di colture aggressive quelli coltivati, completare la deforestazione, inquinare e svuotare le falde acquifere, accelerare i cambiamenti climatici e drammatizzare le conseguenze delle intemperie sul territorio. Tutto è “terra”, alla fin fine: il WWF già qualche anno fa calcolava che – tutto considerato – ciascun essere umano vive in media con 1,8 ettari di terra, mentre ne ha a disposizione 1,4. Quindi già oggi non basterebbe arrestare il tasso di sfruttamento delle risorse e la popolazione totale del pianeta, servirebbe abbassare entrambi questi valori, che invece stanno continuando a crescere. Ma se disaggreghiamo quell’1,8 scopriamo che un europeo ha bisogno di ben 4,5 ettari, uno statunitense addirittura 9,6. Per consentire a cinesi indiani e brasiliani di adottare i nostri scellerati costumi, non basterebbero 4 pianeti come la Terra; se invece vogliamo adottare tutti il modo di vita yankee dobbiamo cercare altri 9 pianeti da sfruttare: è aritmetica, baby!
La Terra è in riserva, e in pochi ne siamo tanto consapevoli da rinunciare alle scarpe nuove se quelle vecchie non sono ancora sfondate, da non gettare un indumento solo perché non è più alla moda, da mangiare poca carne e il pane del giorno prima, decidendo il menu sulla base di quello che scade prima in frigo. Non lo siamo perché siamo cresciuti in un sistema che ci sprona anzi allo spreco perché “fa PIL”. Eppure è da qui che bisogna partire, da comportamenti che già solo i nostri padri avevano, dalla saggezza popolare: andiamo dai nonni, non dagli esperti di finanza creativa. Quelli ci hanno consegnato il mondo attraverso i millenni, questi ce lo stanno per distruggere.
Bisogna togliere il mondo dalle mani dei Signori delle Monete, prima che loro lo tolgano di mezzo definitivamente. A proposito, tornando alla Grande Crisi del 1929, URSS staliniana e Germania hitleriana non ne risentirono affatto: entrambi per vie diverse (Piani Quinquennali al di là della Beresina, Certificati Lavorativi del Tesoro al posto dello svalutatissimo marco postbellico al di qua) avevano una base monetaria collegata strettamente alla produzione reale. Non è un caso che si tratti dei due Grandi Nemici sconfitti dagli Usa, e siamo d’accordo che nel complesso si tratti di mostri ben peggiori, ma perché non cercare di capire come funzionassero in alcune cose? Facciamocela, questa domanda, magari precisando – se dovesse servire – che siamo ben lungi da qualsiasi revisionismo rivalutativo di qualsiasi dittatura: come hanno fatto i sovietici a costruire un impero industriale e bellico mentre l’occidente era nella sua crisi più nera? E i tedeschi, a riprendersi nel giro di pochi anni dalla crisi più spaventosa mai attraversata da un’economia di mercato, quella indotta dalle condizioni capestro del trattato di Versailles con inflazione a 9 zeri? Non c’entra, forse, proprio il fattore che ispirò la “rivoluzione keynesiana” e la nascita dell’ormai fuori moda Welfare State, cioè proprio dare maggiore attenzione all’economia reale che a quella finanziaria, considerando quest’ultima subordinata e strumentale alla prima? Possiamo porci queste domande, o dobbiamo essere per forza sudditi di un Impero, dentro un sistema dove il lavoro è una variabile eventuale, la possibilità di pagarsi in modo onesto una casa dignitosa nell’arco di una vita esclusa a chi non acceda ai risparmi delle generazioni precedenti, e la crescita del PIL e del MIBTEL gli unici motori immobili?

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